Comerio di Confindustria: «Vogliamo investire e dare lavoro. Così non si può»

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BUSTO ARSIZIO – «Oggi il nostro Paese non ha una visione di politica industriale e le imprese della nostra provincia sono gravemente penalizzate dai provvedimenti del governo. Servono investimenti su ricerca e innovazione, ma i fondi vengono tagliati; bisognerebbe continuare a puntare sulla formazione dei giovani, ma le risorse sono state dimezzate. E le uniche risposte che arrivano da Roma sono quota 100, che di fatto non genererà occupazione, ma semplicemente un turn over inferiore perfino rispetto alle attese e il reddito di cittadinanza, su cui le perplessità sono davvero enormi». Click: questa è la fotografia della situazione reale in cui si trovano gli imprenditori della provincia di Varese. E a scattarla è Riccardo Comerio, presidente di Confindustria Varese, che qualche giorno fa ha messo sul tavolo tutta la preoccupazione di chi fa impresa e ora torna sugli argomenti toccati e sulla delicata situazione.

Comerio, perché le imprese della nostra provincia verranno penalizzate in maniera pesante dagli ultimi provvedimenti del governo?
«Partiamo da ciò di cui necessitano le aziende del nostro territorio, senza dimenticare che la nostra è principalmente una manifattura di trasformazione, che quindi punta molto, se non tutto, sulla qualità del prodotto per continuare a essere competitive. Ciò significa che la nostra domanda di lavoro necessita di innovazione, ricerca, ma anche di lavoratori molto qualificati e specializzati. E per agire su queste leve servirebbe una visione di politica industriale che oggi l’Italia non ha».

Per quale motivo sostiene questo?
«Basta guardare i dati. Su ricerca e innovazione sono stati fatti tagli del 50% ai fondi. Ciò significa che molte aziende avranno grosse difficoltà a continuare a sviluppare il proprio prodotto. Penso ad esempio al nostro tessile, che oggi è vincente perché produce prodotti hi tec, nuovi tessuti. Insomma prodotti che oltre alla continua ricerca necessitano anche di specializzazione e qualificazione dei lavoratori. E invece anche sulla formazione c’è stato un taglio di 50 milioni di euro. Insomma questi sono segnali negativi e che indicano che il governo non sta andando nell’unica direzione oggi possibile per il Paese, ovvero quella di mettere gli imprenditori, cioè la categoria che può creare occupazione, lavoro e quindi ricchezza, nelle condizioni ambientali giuste per continuare a garantire lavoro, ricchezza e sviluppo».

Soffermiamoci ancora su formazione e occupazione. Dove dovrebbe investire il governo?
«Negli ultimi anni grazie agli Its è stato sviluppato un canale d’ingresso al lavoro davvero molto utile. Per le imprese, ma anche per chi deve entrare nel mondo del lavoro. E’ stato quindi iniziato un percorso che ora si interrompe. Ma che potrebbe sviluppare numeri importanti. Cito due dati. Uno macro, ovvero in Germania parliamo di 800 mila giovani che vengono impiegati dopo questi percorsi formative, mentre in Italia sono solo 50 mila. Una forbice che fa capire quanto si potrebbe ancora migliorare. Per quanto invece riguarda la nostra Provincia, il 90 per cento dei ragazzi che escono dagli Its vengono assunti. Se c’è un canale su cui investire è chiaro che è questo».

Il governo però risponde con il reddito di cittadinanza. Non è quindi una questione di punti vista?
«Questo provvedimento prima è stato venduto come la misura che avrebbe eliminato la povertà, poi hanno corretto il tiro e sono spuntati navigator e opportunità di lavoro. Sulla carta. Solo sulla carta. Il problema dell’Italia non è far incontrare la domanda di lavoro rispetto all’offerta. Se le imprese hanno bisogno di persone qualificate e specializzate è inutile rispondere a queste esigenze con provvedimenti “generalisti”. Occorre trovare sistemi per soddisfare questa domanda. E il reddito di cittadinanza, ovunque lo si guarda, non punta a questo. E non genererà occupazione».

Perché?
«Semplice, perché le imprese come le nostre, che sono medio – piccole e rappresentano la maggioranza di tutto il Paese, davanti ai pesanti tagli, a una burocrazia sempre più complessa, al fatto di non vedere un’orizzonte di sviluppo freneranno rispetto alle assunzioni. Magari rinunciando anche a uno step di crescita del fatturato, che sarà forse contingente, ma non a lungo respiro. E anche la dote che verrà assegnata per i neo assunti non sarà un valido motivo per garantire loro lavoro. In più, il reddito di cittadinanza rischia di aumentare la disparità».

In che senso?
«Si va a creare una fortissima concorrenza tra chi è in cerca di lavoro e non possiede alcuna specializzazione e che, secondo i dati previsionali saranno la stragrande maggioranza di quelli che avranno diritto a questo reddito e chi invece possiede qualifiche e specializzazioni. Lo ripeto l’occupazione parte dalle imprese e bisogna creare i presupposti affinché gli imprenditori abbiano la necessità di assumere e vedere una prospettiva di sviluppo dell’azienda».

Mancanza di visione rispetto alle imprese, ma anche nelle relazioni internazionali l’Italia in questo momento non brilla. Vedasi le tensioni con la Francia. Lei cosa pensa di questa situazione?
«Mi limito a dire che la Francia è il nostro secondo migliore cliente e che i rapporti non sono stipulati solo da intese sulla carta, ma anche da relazioni umane. Giusto che il governo difenda i nostri diritti, ma non mancano le sedi competenti per farlo. Insomma, se dovessi ridurre il tutto a fattori commerciali, dico che non esiste al mondo un’attività che tratta male il suo miglior cliente».

Quadro preoccupante, proiezioni sul primo trimestre del 2019 non rosee. Come se ne viene fuori?
«Guardando la realtà. La quale dice, piaccia o non piaccia, che l’impresa è il motore di tutto il Paese. Quindi, meno vincoli burocratici, investimenti su ricerca e innovazione com’è accaduto ad esempio il piano industriale 4.0, puntare sulla formazione specializzata e qualificata, ridurre il cuneo fiscale. Soluzione che porta a incrementare anche il netto nella busta paga del lavoratore. Quest’ultimo provvedimento ad esempio sarebbe più efficace del reddito di cittadinanza, che in realtà è un investimento a debito e che non stimola i consumi».

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