Il virus, la paura, il dovere della responsabilità

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Paura del coronavirus: passeggero in transito a Malpensa si difende dal possibile contagio

“Paradossalmente oggi l’Italia è il Paese più sicuro al mondo”. Lo sostiene Piero Angela, il famoso giornalista scientifico, sulla base delle misure adottate per il contenimento del coronavirus. Che abbia ragione non sapremmo dire, di sicuro in questo momento è consigliabile fare tesoro dei provvedimenti e dei suggerimenti delle autorità e degli esperti. Anche e soprattutto qui da noi, nel Varesotto, area che non presenta, e per fortuna, focolai del morbo, come altrove. Soltanto per questo dovremmo essere tutti responsabili al massimo delle nostre possibilità, proprio per bloccare infauste degenerazioni della situazione. Ne siamo capaci? D’accordo, non è facile cambiare abitudini di vita e adeguarsi alle restrizioni alla luce delle contradditorie informazioni che viaggiano più veloci del virus, sia sui media sia sui social. Un effluvio di notizie spesso forvianti e ansiogene, che inducono alcuni scriteriati a infischiarsene bellamente delle momentanee restrizioni. Come fossero un attentato alla libertà.

Quando tutto questo finirà, perché prima o poi finirà, ci sarà modo di valutare se e come fosse necessario evitare comportamenti inaccettabili in un contesto di enorme emergenza sanitaria e sociale. Per non parlare dello tsunami economico che lo “sciame virale”, come lo definisce la virologa Ilaria Capua, sta provocando in tutto il pianeta. L’allarme è generalizzato, colpisce piccole e grandi aziende, artigiani, commercianti, l’intero sistema produttivo e finanziario. Un cataclisma. Dentro il quale suonano addirittura fastidiose le esortazioni a ripartire, a rimetterci subito in carreggiata, a “vivere una vita normale”. Sono tentativi di ristabilire un minimo di fiducia, giusto. Poi, per chi abita dalle nostre parti, basta mettere piede a Malpensa, una delle più importanti “aziende” della Lombardia, per toccare con mano l’entità del disastro.

Ripartire, ci mancherebbe, ma le condizioni ora non lo permettono. I sociologi spiegano che l’economia si rafforza dopo una guerra. E quella in atto, per molti aspetti, lo è. Che lascerà sul campo macerie e diverse vittime, in tutti i sensi e in ogni settore. Ne dobbiamo essere consapevoli al di là degli appelli all’ottimismo, utili, commendevoli, rigeneratori, ma che non dovrebbero mai oscurare il realismo. Altrimenti rischiamo di sconfinare nell’illusione, nel verosimile, nell’irreale.

Una guerra di trincea che combattono medici e operatori sanitari, chiamati a uno sforzo impensabile fino a qualche settimana fa. Sono loro in prima linea. Se vinceremo tutte le battaglie in atto sarà soprattutto per merito loro. Anche per questo, per evitare il collasso delle strutture sanitarie oramai allo stremo, abbiamo l’obbligo di comportarci in modo responsabile. Dobbiamo metterci in testa che questa cosa del coronavirus, benché non sia come la peste nera, durerà ancora parecchio, che dovremo in un certo senso abituarci a convivere con lui, a pagare pegno alla sua ostinazione. Il prezzo collettivo si chiama paura. Un potente aggregante, la paura, che va diffondendosi al pari del virus. Che ha la stessa capacità di contagio, refrattaria a qualunque vaccino; la paura che non si riesce a contenere e che, come l’epidemia, è particamente impossibile da controllare.

Di sicuro non la potrà controllare l’attuale classe politica, litigiosa e, su alcuni versanti, pronta a sfruttare l’emergenza e, quindi, la paura a fini elettorali. Qui potremmo aprire un vasto capitolo. Forse non è il caso, visto la supremazia della salute pubblica rispetto alle meschinità di alcuni protagonisti della nostra classe dirigente, non soltanto romana. Tutto questo però non può togliere spazio alla speranza, che deve necessariamente fare capolino sullo sfondo di un sano, doveroso realismo. E allora, consentiteci un “copia e incolla”, come un giornalista mai dovrebbe fare. Si tratta di una frase di John Lennon, utilizzata da Massimo Gramellini a chiosa del suo “Caffè” sul Corriere. Ci sembra una straordinaria sintesi dello stato d’animo che dovrebbe accompagnarci tutti in un simile, pur devastante contesto. Eccola: “Alla fine tutto andrà bene. E se non andrà bene, significa che non è ancora la fine”.

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