Covid, il giorno della memoria. Tra vittime, inadempienze, errori e speranze

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Il 18 marzo è il giorno della memoria per le vittime del Covid. Banalmente ne avremmo fatto volentieri a meno. Ma quello che ci è capitato tra capo e collo ci obbliga a prendere atto di uno sconvolgimento sanitario sfociato in terribili conseguenze di morte. Ce la ricorderemo per sempre la fila di camion dell’esercito che, un anno fa, trasportavano le vittime di Bergamo ai crematori di altre città. Dodici mesi dopo siamo già a ricordare le migliaia di croci sparse lungo tutta la Penisola e, soprattutto, qui in Lombardia. Purtroppo non saranno le uniche, perché i sinistri tentacoli della malattia continuano nella loro opera di sfalcio.

Insomma, non è finita. E, appunto un anno dopo, ci domandiamo se sia stato fatto il possibile e anche l’impossibile per fermare il virus. Certo, medici, infermieri, volontari e operatori sanitari sono diventati eroi. E non dobbiamo spiegare il perché. Poi i virologi, gli immunologi, gli epidemiologi e l’intera platea di coloro i quali hanno lavorato e stanno ancora lavorando per trovare un’arma vincente. Non c’è ancora una cura. Scontata la domanda: possibile? Quesito da profani della materia. Eppure, in questi mesi si sono sommate le ipotesi farmacologiche, tante, nessuna purtroppo e fino a prova contraria davvero efficace.

Ai maligni e ai complottisti viene il sospetto che la scienza si sia piegata a certi, colossali interessi che passano sopra le nostre teste. Non vogliamo crederci, per carità. Se così fosse sarebbe ancora più terribile della stessa pandemia. Per dirla in chiaro: il vaccino dà una resa più importante e decisiva, sotto tutti i punti di vista. Quanti ne sono stati realizzati in giro per il mondo? Tanti, ciascuno con una proprietà diversa e, tutti, o quasi, ritenuti risolutivi. E per fortuna.

Ne usciremo, ci mancherebbe. Grazie ai vaccini, grazie al fatto – lo dicono gli esperti – che il coronavirus prima o poi perderà la sua carica. Previsione che fa premio sugli uccellacci del malaugurio, già al lavoro per profetizzare nuove pandemie. Nel frattempo cerchiamo di sopravvivere. Al Covid e all’effluvio di parole e di sciocchezze che in questi mesi ci hanno sommersi. Quello che era stato catalogato come un’influenza un poco più aggressiva del solito, un raffreddore, si è poi rivelato in tutta la sua capacità distruttiva.

Alle parole si sono aggiunte l’incompetenza, le scelte sbagliate, i tira e molla di una politica che guardava e continua a guardare al consenso piuttosto che a soluzioni vere. Governo, Regioni, finanche parecchi sindaci, si sono rivelati non all’altezza per gestire l’emergenza. Persino la pragmatica Lombardia, con le sue riconosciute eccellenze sanitarie, ha fatto cilecca. “Siamo stati colpiti da uno tsunami” è la giustificazione. Un anno fa, di sicuro. Avremmo dovuto imparare la lezione. Che cosa dire della confusione e delle attuali inadempienze sul versante delle vaccinazioni? Scarseggiano le fiale, questo è il problema. Ma lo sono anche gli assembramenti di anziani in fila per ricevere il siero, convocati a decine tutti alla stessa ora. E se centrasse anche la sciatteria?

Senza dimenticare le devastanti conseguenze economiche e sociali di chiusure e riaperture improvvise, tra zone colorate di rosso, arancione, giallo, bianco e via con i colori di un’intera tavolozza. Forse non si poteva fare di più, ma forse si poteva e si doveva fare meglio. Oggi però è il giorno del ricordo, della pietà, del dolore. Un obbligo collettivo quello di pensare anche soltanto per un attimo a chi ha pagato il conto più oneroso alla pandemia con la propria vita. Ma è anche il giorno della speranza, a cui ci aggrappiamo per trovare un motivo nuovo per guardare avanti. Anche se al momento non sembra, di motivi validi ce ne sono infiniti. O forse uno soltanto: sta per arrivare la primavera, straordinaria metafora dell’incombente rinascita.

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