VISTO&RIVISTO Più un noioso tarocco che un sincero omaggio a Demme

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di Andrea Minchella

VISTO

MINDCAGE- MENTE CRIMINALE, di Mauro Borrelli (Mindcage, Stati Uniti 2022, 97 min.).

Manieristico. Barocco e ridondante. Lo sconosciuto ai più Mauro Borrelli, già “visual artist” al servizio di grandi come Francis Ford Coppola, Tim Burton e Quentin Tarantino, decide di ricalcare pedissequamente il più grande “thriller” di tutti i tempi, ovvero il dogmatico e mitografico “Il Silenzio degli Innocenti”. Lo fa con una potenza di fuoco non indifferente perché riesce a farsi produrre questo mezzo scempio dalle potentissime e ricchissime Lionsgate, fra le più influenti case di produzioni statunitensi. E poco importa se la carriera da regista di Borrelli vanta un paio di lungometraggi incentrati su elementi “horror” miscelati, spesso con il misurino, ad elementi gotici, “splatter” e metafisici, che non hanno lasciato evidenti tracce tra gli spettatori di tutto il mondo. Qui Borrelli scrive e dirige un omaggio eccessivamente reverenziale e poco elaborato del capolavoro di Jonathan Demme che riscrisse definitivamente i canoni narrativi e stilistici del cinema “thriller” psicologico e, comunque, del cinema di qualità in genere.

Il serial killer Arnaud Lefeuvre è incarcerato in un ospedale psichiatrico adibito a prigione in cui l’unico detenuto è lui. La prigione rimanda senza troppi indugi allo spazio claustrofobico in cui Hannibal Hopkins-Lecter soggiornava nel film di Demme ed interagiva con una pudica Clarice Foster-Sterling. Qui Lefeuvre disegna e farnetica attendendo la sua condanna a morte che avverrà nel giro di pochi giorni. Lefeuvre è un serial killer che ha ucciso molte donne, spesso provenienti da ambienti poveri in cui il sesso è merce di scambio, facendole ritrovare imbastite e addobbate come fossero protagoniste di quadri religiosi del quattrocento o del cinquecento. Ora però la comunità viene nuovamente scossa da una serie di omicidi le cui modalità sembrano essere identiche a quelle degli scenografici delitti di Lefeuvre. Dunque, come avveniva nel “Il Silenzio degli Innocenti”, il detective di turno si ritrova costretto ad andare in prigione dal serial killer “maestro” per coinvolgerlo nelle nuove indagini sperando di poter ottenere utili elementi per la risoluzione del caso. La bella e algida Mery Kelly, coadiuvata dal collega Jack Doyle, si presenta da Lefeuvre per sottoporgli le foto e le indagini dei nuovi omicidi che sembrano essere un’emulazione dell’artista-omicida ormai prossimo all’esecuzione. Ovviamente Lefeuvre accetta ma solo a certe condizioni.

Dunque questo “Mincage” si presenta più come una copia ricalcata che un omaggio al più grande film che sia stato realizzato negli ultimi trent’anni. Perché i personaggi sembrano essere delle povere proiezioni sbiadite dei caratteri forti e penetranti del film di Demme. Il bravo John Malkovich non riesce, seppur capace e inquietante, a reggere il paragone con Anthony Hopkins. La bidimensionale Melissa Roxbugh è infinitamente più piccola rispetto la gigantesca Jodie Foster che fece innamorare con la sua candida innocenza il mondo intero. Il problema di un film come questo è l’intento di voler raggiungere livelli che nessuno, forse, potrà mai più raggiungere soprattutto se non ci si distacca completamente dal racconto ispiratore. Il problema di “Mindcage” è una sceneggiatura scritta male ed un soggetto pieno di elementi già visti non solo nel capolavoro tratto dal romanzo di Thomas Harris, ma anche in pellicole “culto” come “Seven”, “Zodiac” o “Twin Peaks”, senza però un’intelligente, sincera e necessaria rielaborazione da parte di Borrelli in grado di garantire la realizzazione di un film magari non completamente riuscito, ma almeno inedito ed originale.

L’omicidio come atto o opera d’arte qui viene completamente svuotato da una serie di banali e superficiali “topos” presi in prestito da altre narrazioni che, però, avevano il pregio di essere state pensate, scritte e realizzate con il cuore e con l’anima e non con il manuale del perfetto regista di “Thriller” in mano. Perché una discreta forma stilistica di un’opera non ne garantisce la qualità o la capacità di stregare il suo pubblico. La mancanza di una vera creatività non può essere sostituita con una grammatica lineare e ben costruita che non sorregge però una storia ed una sceneggiatura all’altezza. Il risultato rischia di essere, come in questo caso, totalmente deludente.

L’estate cinematografica italiana sembra apprestarsi nuovamente ad una siccità artistica che obbliga la distribuzione a mettere in circuito prodotti scadenti pur di rinnovare il proprio listino, a discapito dello spettatore che non vuole rinunciare, neanche nei mesi caldi, ad un paio d’ore di svago nella insostituibile sala cinematografica. Peccato.

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RIVISTO

MANHUNTER- FRAMMENTI DI UN OMICIDIO, di Michael Mann (Manhunter, Stati Uniti 1986, 119 min.).

Una gemma grezza. Un lavoro asciutto tratto dal romanzo di Thomas Harris. Da questo lavoro si staccherà qualche anno dopo il più grande film di tutti i tempi. Da questa narrazione, ancora non del tutto maturata, prenderà vita il capolavoro di Jonathan Demme in cui un diabolico Anthony Hopkins darà alla luce il serial killer più atroce del cinema di sempre.

In questo “Manhunter” un folle Brian Cox incomincia egregiamente un lavoro di “personificazione” che raggiungerà il suo vertice nel “Il Silenzio degli Innocenti”. Anche se un po’ datato, rimane un preludio ad Hannibal Lecter interessante ed agghiacciante che va rivisto.

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