di Gian Franco Bottini
Ci fu un momento di questa pandemia nel quale, tanto per tenerci su, ci congratulammo l’un con l’altro dicendo quanto eravamo bravi a restare uniti e coesi di fronte a un grande guaio che ci era capitato addosso. Era il momento dei canti dai balconi, di qualche bandiera tricolore e persino dell’inno di Mameli, tutte cose che eravamo abituati a sfoderare solo di fronte ad un campionato mondiale vinto! Ci sentivamo un vero popolo pronto al sacrificio, generoso con i più deboli, deciso a vincere la partita.
Da allora ne è passato di tempo, forse troppo per il nostro carattere latino, e pian piano ha ripreso il sopravvento la logica dello spritz, del week-end, della pizzata e ci siamo trovati in mezzo alla seconda ondata ed ora alla terza, che ci ha fatto capire che l’unico mezzo per venirne fuori è una massiccia operazione di vaccinazione collettiva. Nel frattempo la decantata unità si è sfrangiata: il rispetto e la generosità fra generazioni si sono affievoliti, il morale generale è sempre più provato, la politica ogni tanto non perde il vizietto di strumentalizzare le difficoltà della gente.
All’arrivo dei primi vaccini, pressoché ad inizio anno, era sembrato che si schiarisse l’orizzonte soprattutto per quella fascia di ultrasettantenni che ha pagato, e ancora lo sta facendo, un pesantissimo tributo alla fame omicida del covid. Non passa settimana che ci sia da rattristarsi per la perdita di qualche prezioso “anziano” che lascia un vuoto difficilmente colmabile in questa nostra società tendenzialmente egoista e disturbata dalle ”diversità” e viene da pensare, senza voler stravolgere l’ineluttabilità della legge del tempo, se per loro non si sarebbe potuto far qualcosa di meglio.
Con l’arrivo delle prime fiale di vaccini, si era parlato di una “macchina da guerra” già allestita e pronta a spazzare via il problema, proprio a cominciare dalle fasce più deboli, ultraottantenni in testa; da allora qualcosa è successo, anzi, non è successo. A quasi tre mesi di distanza poco più del 10% di quelle persone sono state immunizzate nella “grande” Lombardia e i ritmi sono talmente blandi che se non fosse che il miracolante Bertolaso promette, per la prima decade d’aprile, il completamento degli ottuagenari ci verrebbe da dire se non fosse il caso che ognuno di loro cominciasse ad arrangiarsi da se, raccomandando l’anima a Dio. Qualcosa, ancora una volta, non ha funzionato soprattutto dalle nostre parti e viene da chiederci quali siano le motivazioni dato che una campagna vaccinale si basa essenzialmente su due chiari elementi : la disponibilità dei vaccini e l’organizzazione.
Potremmo fare un lungo elenco di fatti e misfatti, cosa che evitiamo di fare perché pensiamo siano a conoscenza di tutti, e arriviamo subito alle conclusioni. Per quanto riguarda i vaccini e la loro scarsa disponibilità , se dovessimo basarci unicamente sulla capacità dimostrata dall’Europa nel gestire una situazione di una natura e dimensioni di sua competenza, il nostro antico europeismo riceverebbe un colpo quasi letale. Per quanto riguarda gli aspetti organizzativi, che al momento “fanno acqua” ovunque ci si giri e che sono evidentemente in capo alla Regione Lombardia, ci verrebbe da rinnegare il nostro convinto voto di qualche anno fa al referendum per la richiesta di una maggior autonomia regionale.
Se tanto mi dà tanto meglio aspettare di valutare ciò che ha messo a nudo questa pandemia: la tragica pochezza di uomini e partiti e persino il crollo di quello che è sempre stato il fiore all’occhiello della nostra regione,la sua capacità organizzativa. Ad aprile dovremmo avere la famosa “macchina da guerra” con i turbo accesi e milionate di vaccini a disposizione, queste sono le promesse; i nostri ottantenni potrebbero essere messi in sicurezza, seppur con qualche mese di ritardo anche rispetto a molte regioni che noi, un po’ spocchiosamente, abbiamo sempre giudicato di minor rango. Con qualche dubbio speriamo che tutto ciò si avveri, perché vedere la nostra Regione agli ultimi posti di tutte classifiche fa una gran rabbia e il cominciare a sentire che “si stava meglio quando si stava peggio” oltre che tristezza ci crea l’amaro sentore di aver sperperato una efficienza che proprio i trascurati nostri “vecchi” avevano nel tempo costruito.