Pandemia e lavoro: per il Cnel si rischia una situazione esplosiva

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La pandemia sta avendo effetti drammatici a 360 gradi e purtroppo il Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, un organo costituzionale in grado di elaborare analisi e valutazioni di spessore e spesso ingiustamente da anni sotto le forche caudine della soppressione,  conferma la gravità della situazione che anzi sottolinea rischia di diventare esplosiva nei prossimi mesi con la fine del blocco dei licenziamenti (per ora fino a marzo)  e della Cassa integrazione consentita specificatamente per il Covid.

L’occupazione giovanile registra due  milioni di Neet  (acronimo inglese di Neither in employment or in education or training o anche  Not in education, employment or training, indica persone non impegnate nello studio, né nel lavoro o né nella formazione) e quella femminile, già in una situazione critica pre-coronavirus, con quasi una donna su due inoccupata, che si è ridotta di quasi 2 punti percentuali. Non è finita: il mancato rinnovo dei contratti per oltre 10 milioni di lavoratori (77,5% del totale), l’inadeguatezza del sistema scolastico nella formazione delle competenze, l’aumento della povertà e delle disuguaglianze sono un’altra mazzata sul sistema Paese.

La fine del blocco dei licenziamenti

Con l’interruzione della Cassa integrazione e la fine del blocco dei licenziamenti si ritiene che una parte degli esuberi verrà sicuramente ‘assorbita’ dall’economia sommersa: non riuscendo le persone a trovare un’occupazione in regola andranno ad aumentare la quota già cresciuta negli ultimi anni di lavoro nero. La crisi conseguente alla pandemia ha colpito circa 12 milioni di lavoratori tra dipendenti e autonomi, per i quali l’attività lavorativa è stata sospesa o ridotta, in seguito al lockdown deciso dal Governo per limitare l’aumento esponenziale dei contagi. E’ questa a grandi linee la fotografia che emerge dal ‘Rapporto sul Mercato del lavoro e la contrattazione 2020’ del Cnel di cui una sintesi è stata diffusa alla stampa.

“La crisi prodotta dal covid e dai provvedimenti adottati per contrastare l’emergenza sanitaria ha alterato in profondità il funzionamento del mercato del lavoro come dell’economia, con impatti diversificati per settori, per territori e per gruppi sociali, allargando divergenze e diseguaglianze storiche – ha spiegato Tiziano Treu, presidente dell’organo costituzionale -. Gli impatti più gravi si sono verificati non nelle attività manifatturiere, ma in settori ad alta intensità di relazioni personali come il turismo, la ristorazione, le attività di cura, e i servizi in genere”.

Ammortizzatori sociali insufficienti

“La pandemia – ha proseguito – ha messo in evidenza non poche falle nel nostro sistema di protezione sociale, sia negli ammortizzatori (Cig e Naspi) nonostante la riforma del 2015 avesse provveduto a una loro estensione, sia nel più recente reddito di cittadinanza che doveva fornire un aiuto economico ai poveri e, in ipotesi, aiutare quelli abili al lavoro a trovare occupazione. La esplosione del lavoro digitale a distanza ha modificato i luoghi e il tempo delle attività umane. È cresciuta la interdipendenza fra lavoro salute e contesto ambientale. Si è resa, per questa via, evidente la necessità di integrare fra loro politiche del lavoro, istituti della salute e cambiamenti del contesto socioeconomico. C’è la necessità di mettere in atto politiche e interventi coordinati in due settori storicamente divisi come sanità e lavoro”.

Il peso del debito pubblico

Secondo il Rapporto, l’Italia si trova oggi davanti a un drammatico bivio. Da un lato c’è un sentiero stretto e in salita che porta ad una nuova fase di sviluppo economico e sociale. Sull’altro lato c’è un’ampia strada che va verso il declino. Il peso del debito pubblico, assieme a quello degli squilibri demografici, in combinazione con quello dei Neet “ci sbilancia fortemente verso la seconda strada”. Quando l’emergenza sarà passata ci troveremo, in positivo, con una maggiore attenzione alla salute pubblica, ma anche, in negativo, con la peggiore combinazione – in Europa e nella nostra storia repubblicana – di alto debito pubblico, bassa natalità, bassa presenza degli under 35 nel sistema produttivo italiano.

Sempre dallo studio emerge “la persistente debolezza dei percorsi formativi e professionali”. Sul lato della formazione, i dati Eurostat mostrano come l’Italia da tempo presenti una delle più basse percentuali di 15enni con competenze considerate indispensabili per costruire percorsi solidi di vita e lavoro nel XXI secolo. Bassa è anche l’incidenza di laureati (27,6% nella fascia 30-34 rispetto all’obiettivo europeo di salire, sempre entro il 2020, oltre il 40%). Per fortuna la quota di ragazzi tra i 18 e i 24 anni che non hanno completato la scuola secondaria superiore è scesa nella prima parte del decennio scorso da oltre il 18% a valori attorno al 14%.

Le donne pagano il prezzo più alto

Viene rimarcato che sono le donne ad aver pagato il prezzo più alto della crisi in quanto impegnate a ricoprire ruoli e a svolgere lavori più precari, soprattutto nei servizi. Tutti i dati confermano che la condizione della donna lavoratrice è penalizzata soprattutto dalla difficile conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. È questa difficoltà che contribuisce a mantenere la quota di occupazione femminile (meno del 50 % ) al di sotto delle medie europee. Tale dato si è aggravato nel corso della pandemia senza che il ricorso allo Smart working abbia giovato a correggerlo perché esso è stato limitato dall’aggravio di compiti familiari, specie sulle donne con figli impediti di frequentare le scuole. Per lo stesso motivo si spiegano il crollo della occupazione femminile e la crescita del tasso di disoccupazione in occasione della maternità per le donne indotte a lasciare il lavoro per prendersi cura dei figli.
Infine alcuni accenni alla povertà. Circa 5,3 milioni di famiglie risultano avere un Isee, l’Indicatore della situazione economica, minore di 9.360 euro annui.

Angela Bruno

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