Cina, il genocidio degli Uiguri

Campi di rieducazione, violazione di diritti umani e violenze nella ricca regione dello Xinjiang

di Marta Mallamace

Gli uiguri sono una minoranza turcofona islamica appartenente a uno dei 56 gruppi etnici riconosciuti dal partito comunista cinese, abitano la regione autonoma nordoccidentale dello Xinjiang, in Cina. La loro presenza è testimoniata fin dal II secolo a.C., quando erano in opposizione al primo governo Han che stava allora costituendosi. Sono all’incirca 12 milioni, appena lo 0,6% della popolazione cinese e sono di religione islamica sunnita. Un tempo erano l’etnia prevalente nell’area dello Xinjiang ma oggi, a causa delle pressioni esercitate dal governo di Pechino, vengono emarginati e sostituiti dal gruppo maggioritario cinese: gli Han.

Spinte secessionistiche e scontri
A partire dagli anni ’90 con la disgregazione dell’Unione Sovietica, cominciano le prime spinte secessionistiche. È infatti l’affermarsi di nuove repubbliche indipendenti, specialmente confinanti con lo Xinjiang, che ispira e incoraggia l’etnia turcofona a chiedere maggiore autonomia, appellandosi anche alla retorica religiosa e accrescendo così la tensione con Pechino. Episodi di separatismo e di violente insurrezioni portano a importanti interventi politici da parte del governo cinese: le campagne “Strike Hard”, vere e proprie missioni repressive delle autorità, o la formazione del “Gruppo dei Cinque”, composto da Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan, finalizzato a impedire ai musulmani uiguri, provenienti da paesi vicini, di raggiungere la Cina.

Nel tempo si moltiplicano gli scontri inter-etnici nello Xinjiang e si formano diverse cellule terroristiche uigure come il Movimento islamico del Turkestan orientale, colpevole di alcuni attentati. Cresce di conseguenza in maniera esponenziale la paura del terrorismo e questo porta il governo cinese, nel 2015, ad avviare un’operazione molto aggressiva contro i gruppi jihadisti, che nel tempo si estende a tutta l’etnia: oggi è in atto un processo di de-islamizzazione e sinizzazione (cioè di avvicinamento coatto della popolazione alla cultura cinese), che parte attaccando la popolazione locale e che punta alla sua eliminazione definitiva dall’intera zona.

Che cosa sta accadendo dietro il muro di silenzio
Lo Xinjiang è ormai uno stato di polizia che esercita sui cittadini uiguri una sorveglianza di massa e una attività censoria che sta allontanando l’etnia dalla sua stessa identità. Il progetto si basa sull’utilizzo di dispositivi per la tracciabilità, di telecamere a riconoscimento facciale, di intercettazioni telefoniche, prelievo di campioni di Dna per il controllo della popolazione e l’abbattimento di molte moschee. Sono però due i punti che fanno discutere più di altri. È infatti intenzione della Cina ridurre sempre di più le nascite attraverso la pratica di sterilizzazioni, uccisioni infantili, minacce e violenze sulle donne, portando così all’estinzione l’intera popolazione degli uiguri: pratica che secondo la Convenzione per la prevenzione e punizione del crimine di genocidio del 1948 costituisce “genocidio demografico”.

In più, il governo ricorre a campi formalmente denominati “scuole per l’educazione professionale” che nascondono una vera e propria deportazione di massa e che violano ogni diritto umano: sono centinaia di migliaia a essere internati, costretti all’indottrinamento obbligato, uccisi, allontanati dalla propria casa e dalla propria terra. Le scuole di rieducazione sono campi di detenzione veri e propri e la rieducazione è in realtà violenza fisica, morale, culturale e che porta alla cancellazione dell’identità uigura. Il governo cinese ha negato l’esistenza di questi presunti lager nello Xinjiang, fino a ottobre 2018, quando li ha legalizzati ufficialmente. Non è ancora del tutto chiaro cosa avvenga all’interno di queste realtà, soprattutto a causa della censura statale cinese, ma negli ultimi anni i media, i report e i giornali stanno aiutando a fare chiarezza sulla situazione.

I grandi interessi economici
Ciò che spinge il governo ad andare avanti con questa persecuzione è l’area che il popolo uiguro abita. Lo Xinjiang ha infatti un enorme valore economico e un’ottima posizione geopolitica. Ricco di riserve di gas naturale, carbone e altre risorse fossili, rappresenta il 20% del potenziale energetico cinese. Ha considerevoli riserve petrolifere e ospita la più grande e importante azienda di petrolio: la PetroChina, legata da un accordo all’olandese Shell e alla russa Gazprom e che vede passare proprio in quell’area un gasdotto fondamentale per la distribuzione del gas. In più, lo Xinjiang è l’unico sito cinese dove vengono svolti dal 1959 test di armi nucleari, in particolare nel Lop Nor. Oltre al ruolo vitale che riveste nella ricerca scientifica e militare e nella fornitura di gas naturale, petrolio e carbone, questa terra ha un ruolo strategico nella nuova Via della Seta, lanciata dall’ex presidente Xi Jinping nel 2013, la via che collega la Cina al resto del mondo.

Le reazioni
Nella comunità internazionale alza la voce l’America: “La Repubblica popolare cinese, sotto la direzione e il controllo del partito comunista, ha commesso un genocidio contro gli uiguri prevalentemente musulmani e altri gruppi minoritari etnici e religiosi nello Xinjiang” dice l’ex segretario di stato americano Mike Pompeo dell’amministrazione Donald Trump, prendendo una posizione importante. Anche l’Unione Europea e altri stati, con una lettera alle Nazioni Unite, condannano il trattamento subito dalla minoranza. Le parole non sono però sufficienti e non bastano a prevalere sugli interessi economici, gli unici a essere tutelati. Come ad esempio nelle relazioni bilaterali tra Pechino e i paesi del Medio Oriente, che nonostante la condivisione religiosa hanno sempre parteggiato per Pechino, partner essenziale per gli affari. O come in Turchia dove Recep Erdogan, il presidente, dichiara di essere certo del benestare della popolazione degli uiguri mentre manda avanti la sua partnership commerciale con la Cina per la nuova Via della Seta.

Separatismo, islamismo e terrorismo per lo stato cinese acquistano dunque un unico significato. Ciò permette a Pechino di giudicare e condannare ogni uiguro come se fosse un criminale. Per il resto del mondo invece ciò che conta sono gli interessi politici ed economici. Che continuano a prevalere su 12 milioni di esseri umani.

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