Per il carcere colabrodo di Varese la soluzione è a Busto Arsizio

varese busto carcere
La banda dei fratelli Dalton tenta l'ennesima fuga dal carcere

La soluzione per il carcere colabrodo di Varese? A Busto Arsizio. Può sembrare una provocazione, ma l’idea di chiudere i Miogni, penitenziario dal quale sembra uno scherzo evadere, si trova una ventina di chilometri più in giù, esattamente nella casa circondariale bustocca. Struttura di facile riqualificazione, secondo il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria che, alcuni anni fa, lanciò l’idea di dismettere gli ottocenteschi e inadeguati Miogni e trasferire personale e detenuti in quel di Busto, ma soltanto dopo un ineludibile ampliamento per aumentare la capienza dagli attuali 400 posti a 5/600. In altre parole, per ospitare la popolazione carceraria varesina che si attesta sul centinaio di unità. E risolvere così l’annoso problema dell’edificio del capoluogo, sempre in attesa di essere ristrutturato ma, secondo lo stesso ministero della Giustizia, con un intervento antieconomico rispetto alla realizzazione di una nuova casa di detenzione. Risultato: Varese si tiene ancora il suo vecchio carcere né, al momento, ha in progetto la realizzazione di uno nuovo, come pareva potesse accadere a un certo punto, una manciata di anni fa.

In effetti, a guardar bene, la soluzione più logica e probabilmente più conveniente sul versante dei costi è proprio quella bustocca. Però, c’è un però: Varese si ribellò subito a un simile sbocco. Fu l’allora sindaco Attilio Fontana a giudicare offensiva la proposta. Sue parole: “Una tale decisione sarebbe assurda in sé. E sarebbe assurdo che fosse stata presa senza neanche consultare gli enti locali interessati. Sarebbe insomma l’ennesimo provvedimento offensivo di questo Stato inefficiente e centralista che se ne frega del territorio e di chi ci vive”. Drastico, Fontana. Anche con ragioni pratiche, che dovrebbero evitare gli scontati sospetti di campanilismo. E cioè, nascerebbero problemi per chi lavora negli ambiti giudiziari varesini. Sottolineava l’ex primo cittadino: “Magistrati, avvocati, forze dell’ordine dovranno andare di continuo a Busto Arsizio”. Insomma, un disagio, benché le distanze si siano oggi accorciate e vi sia invece la necessità di imboccare strade sostenibili anche sotto il profilo economico per lo Stato e non solo.

 Con ogni probabilità non se ne farà nulla, per quella cattiva abitudine tutta italiana di lasciare i problemi irrisolti, soprattutto quando si vanno a toccare interessi territoriali che, tradotti, riguardano i possibili consensi elettorali. Comprese le mai sopite egemonie di una città sull’altra, di un territorio su un altro. Così che anche un carcere finisca per rientrare nelle competizioni di campanile, con la conseguenza dell’immobilismo generale. In modo che dai Miogni si riesca a fuggire in perfetto stile della banda dei fratelli Dalton, quelli dei cartoni animati di Luchy Luke che si calavano dalle mura del carcere con le lenzuola annodate; che la sicurezza rimanga un’esigenza soltanto annunciata e riproposta ogni volta da politici lesti a cavalcare il tema; che la dignità di chi è ristretto nelle anguste celle di via Felicita Morandi venga calpestata da un ambiente degradato e invivibile; che gli antichi, inadeguati edifici carcerari varesini continuino a rispecchiare l’immobilismo di una classe dirigente che si sveglia a comando nei momenti più eclatanti. Come l’evasione dei due “campioni” dell’altro pomeriggio, in fuga in pieno centro senza che qualcuno potesse lanciare l’allarme. Un bel risultato. Fosse l’unico potremmo anche passare oltre. Il punto è che è soltanto uno dei tanti di un Paese che si accorge dei suoi guai quando arrivano alla ribalta delle cronache, per poi riporli in un cassetto, salvo lamentarsi, accusare, lagnarsi, berciare, ma alla prossima volta.

varese busto carcere – MALPENSA24