Un Paese che frana

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La zona colpita dalla frana a Casamicciola, a Ischia

Ci risiamo, un’altra frana, un altro disastro, altre vittime. Ischia di nuovo martoriata dopo il terremoto e le alluvioni. Ennesima conferma di come l’Italia sia fragile. Non bisognerebbe nemmeno ripeterlo, tante sono state negli anni le occasioni che ce l’hanno purtroppo rammentato. E ogni volta lì a dire, appunto, a ripetere, che bisogna “fare qualcosa” per il rischio idrogeologico di un Paese di montagne e colline, che ha le fondamenta su ampie porzioni di territorio sismico, con boschi preda di incendi spesso provocati dalla mano di delinquenti, con corsi d’acqua che passano di botto dalla siccità alle piene; tutto aggravato dai cambiamenti climatici che nemmeno più i negazionisti riescono a smentire, fra improvvisi nubifragi e temperature da deserto del Sahara.

Ogni volta rincorriamo le emergenze, aggiustiamo i danni del singolo evento, piangiamo i morti e promettiamo misure definitive per evitare che certe situazioni debbano ripetersi. Tocca allo Stato muoversi? Probabilmente tocca sì allo Stato, ma anche a tutti noi. Per restare nel Varesotto, quanti sono i proprietari che curano i loro boschi? Un esempio marginale rispetto a più incombenti pericoli, ma pure una spia di come la disattenzione per l’ambiente sia diffusa dappertutto. I dati degli istituti specializzati spiegano a forza di numeri un contesto più che preoccupante. Ne basta uno: le frane censite nel secolo scorso sono 13 volte quelle del 1800. “Non è più il caso di affidarsi alla buona sorte” scriveva in uno dei suoi articoli di denuncia Gian Antonio Stella. Per dirla in un altro modo, lo stellone italico ci volta le spalle.

Ma se lo Stato dorme, molto possono e debbono fare Regioni, Province e Comuni. Lo fanno? Pensiamo all’urbanizzazione selvaggia. Per “fotografare” la costa ligure Indro Montanelli usò una delle sue folgoranti frasi: “Da Bocca di Magra al confine francese, per trecento chilometri, è un bagnasciuga di cemento”.  Case su case, senza soluzioni di continuità. Accade in Liguria, terra di turismo; accade dappertutto. Restiamo ancora in provincia di Varese, dove l’abusivismo edilizio è marginale: dal capoluogo fino a Busto Arsizio l’urbanizzazione non lascia spazio al verde. Non serve sottolineare che, per fortuna, siamo in una zona a basso rischio idrogeologico. Il problema è diverso. Impone una cultura dell’ambiente che ancora non c’è o, quando c’è, è ininfluente. Più si scende lungo lo Stivale, più la questione è pressante. Non andiamo oltre con le conseguenti considerazioni, tanto si dimostrano scontate. Fino a deprimerci.

Come uscirne? Il discorso è delicato, soprattutto complesso. Chiama in causa migliaia di siti giudicati a rischio, con milioni di abitanti sottoposti, magari inconsapevolmente, a pericoli di origine naturale. Esistono mappe che indicano dove occorrerebbe agire con tempestività. Quanti sindaci le conoscono? Certo, la questione è anche finanziaria. In soccorso, prima della protezione civile e dei vigili del fuoco, arriva il Pnrr. Soldi dell’Europa che potrebbero essere utilizzati per lavori strutturali di prevenzione. Ecco, la prevenzione. E’ un altro di quei temi sbandierati a tutta voce per lasciarli cadere un secondo dopo. Cultura ambientale e cultura della prevenzione. Tanta roba per una nazione capace di straordinari slanci di solidarietà, pronta a commuoversi per le vittime di calamità, disastri e incidenti, ma veloce nel passare oltre. E non si dica che le colpe sono soltanto della politica.

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