Jan Palach, una storia di libertà

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Ivanoe Pellerin
di Ivanoe Pellerin*
Cari amici vicini e lontani, vorrei raccontarvi una storia che forse alcuni non conoscono e che altri hanno dimenticato. Dunque, è un pomeriggio alle luci del tramonto appena iniziato quando un giovane attraversa la piazza di San Venceslao. A Praga questa piazza insieme ad altre due appartiene ad un quartiere chiamato Città Nuova, voluto da Carlo IV nel 1348, usate rispettivamente per il mercato del fieno, piazza Senovazne, per il mercato del bestiame, piazza Carlo, per il mercato dei cavalli piazza San Venceslao, appunto.
È una storia nella storia quella di San Venceslao (907-935), figlio del duca di Boemia, vissuto in una terra in cui il cristianesimo stava iniziando a diffondersi grazie all’evangelizzazione dei popoli slavi avviata pochi decenni prima. Sua nonna paterna era santa Ludmilla, una convertita che lo educò cristianamente, avversata dalla cattiva nuora pagana Dragomira. Alla morte del padre nel 921, Venceslao era ancora troppo giovane per guidare il suo popolo e così la madre assunse la reggenza, promuovendo una serie di misure fortemente ostili al culto e all’insegnamento cristiano.
In congiura con una parte della nobiltà fortemente pagana, Dragomira cercò di favorire il figlio più piccolo, fratello di Venceslao, Boleslao. Questi tentò più volte di ucciderlo e ci riuscì solo armando alcuni sicari prezzolati. Mentre moriva, Venceslao avrebbe esclamato: «Nelle tue mani, Signore, raccomando l’anima mia». La tradizione narra che il suo sangue sia rimasto sparso sul pavimento e nessuno sia riuscito a lavarlo. Il corpo fu successivamente sepolto a Praga, nella cattedrale di San Vito . Subito i cristiani del luogo iniziarono a onorarlo e la sua eco di santità si diffuse in poco tempo fra la gente.
Che cosa ha a che fare questa storia con la nostra? Forse niente. Forse qualcosa. Qualcosa che non si vede, non si tocca, forse solamente si percepisce. Forse in quella piazza, fortemente evocativa d’amore per la patria e per la libertà, il nostro giovane che cammina al tramonto trae ispirazione per un gesto atroce ed eroico insieme. Egli si ferma ai piedi della scalinata del Museo Nazionale e guarda la città intorno a sé. Lontano, nascosta dalle case, scorre placida la Moldava. In Cecoslovacchia in quel periodo storico c’era molto movimento. Il 5 gennaio dell’anno precedente, il 1968, era diventato segretario politico del partito comunista cecoslovacco Alexander Dubcek che aveva dato vita alla cosiddetta “primavera di Praga”, un tentativo di concedere nuovi diritti grazie ad un decentramento parziale dell’economia e ad una relativa democratizzazione.
Allora la Cecoslovacchia faceva parte del patto di Varsavia, un patto militare e politico molto vincolante, sotto lo stretto controllo dell’Unione Sovietica che non ammetteva né distrazioni né disobbedienze. L’Unione Sovietica non gradì affatto le nuove libertà che includevano un allentamento circa le restrizioni sulla libertà di stampa e la libera circolazione dei cittadini. In particolare, le riforme per il decentramento delle autorità amministrative e le libertà di espressione irritarono molto i sovietici ed i negoziati portati avanti da Dubcek per avere qualche spazio di manovra fallirono.
La notte fra il 20 ed il 21 agosto 1968, 500.000 soldati dell’Armata Rossa con circa 7.000 mezzi corazzati ed un completo equipaggiamento bellico entrarono in Cecoslovacchia sorprendendo non solo il mondo intero ma anche la nazione stessa. Anche l’esercito cecoslovacco, legato ai dogmi ed ai dettati del patto di Varsavia dette un inevitabile contributo all’occupazione del paese. Nei filmati di allora si vedono al mattino del 21 una grande folla recalcitrante e molti praghesi che vanno incontro ai carri armati sovietici sventolando la bandiera.
​Come appare ovvio, dopo l’invasione, in Cecoslovacchia si instaurò un periodo diciamo “di normalizzazione”: i leader successivi ripristinarono le condizioni politiche ed economiche antecedenti a Dubček. Gustáv Husák divenne presidente e annullò tutte le riforme.
Il nostro giovane al tramonto si chiama Jan Palach. È il 16 gennaio 1969, un anno dopo. È uno studente di filosofia molto bravo ed appassionato di politica e sa bene che i carri sovietici hanno messo fine ad un esperimento di libertà. Fa parte di un gruppo studentesco dal nome eloquente “Patria e Libertà”. Guarda la sua città, lentamente estrae dallo zainetto che lancia lontano un
bottiglia, si cosparge di benzina e con un accendino si dà fuoco. Brucerà per poco tempo. La prima “torcia umana” di quella terribile protesta, un messaggio lanciato al mondo allibito. Subito soccorso, verrà ricoverato in ospedale.
L’opinione pubblica è sgomenta, mentre il governo tenta una campagna diffamatoria verso lo studente per sminuirne il suicidio.
Vi chiederete cosa c’era in quello zainetto lanciato lontano. Vi erano i suoi quaderni, i suoi appunti di studente ed anche una sorta di testamento. È uno scritto per i suoi amici, per tutti i cecoslovacchi, per tutti coloro che amano la libertà. “Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della rassegnazione e della disperazione abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il n. 1, è mio
diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana.”
Ai funerali di Jan Palach parteciperanno 600.000 persone e l’esercito sovietico non potrà intervenire. La faccenda che mi impressiona è che Jan sarà seguito dalla torcia umana n.2, lo studente Jan Zaich, e addirittura da altri sei martiri, ma all’epoca nessuno in occidente ne saprà mai nulla. Questi ultimi fatti sono venuti alla luce solo dopo la caduta del muro. Jan Palach rimase lucido durante i due giorni di agonia. Ai medici disse d’aver preso a modello i monaci buddhisti del  Vietnam. La sua storia ispirò Francesco Guccini per una canzone davvero commovente che forse pochi ricordano poiché la nostra memoria è sempre troppo breve.
Cari amici vicini e lontani, cinquant’anni dopo questa storia mi mette malinconia poiché questo avvenimento turba ancora oggi le coscienze, poiché la tristezza è velata dal convincimento che la libertà dell’uomo è ovunque una strada difficile e a volte drammatica. Per questo credo che sia necessario e importante raccontarla e ricordarla.
*già direttore dell’Unità Operativa Complessa di Cure Palliative e Terapia del Dolore dell’ospedale di Legnano
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