Sfratto al chiosco, ma c’è chi fa la figura del babbeo

busto chiosco san giovanni

Siamo di fronte a un intreccio tra burocrazia e politica, incapaci di risolvere un problema che esse stesse hanno creato e che, per paradosso, rivela la debolezza degli apparati pubblici anche nella pragmatica e determinata Busto Arsizio. Oggetto del contendere: il chiosco istallato in piazza San Giovanni, cuore pulsante della città, davanti all’omonima, baroccheggiante basilica. Non proprio il miglior biglietto da visita, con ombrelloni e tavolini che richiamano il litorale romagnolo, non certo l’austerità e, per alcuni aspetti, la particolare atmosfera che si respira osservando il contesto urbano e artistico del luogo nella normalità.

Vero, siamo in estate, all’indomani del pesante lockdown; per questo bisognerebbe essere più tolleranti. Infatti, l’amministrazione civica è stata giustamente di manica larga con i gestori di bar e locali, concedendo loro di occupare spazi comuni su strade, piazze e marciapiedi, per recuperare i mesi di inattività a causa del Covid. Così, anche in piazza San Giovanni, il titolare di un bar che ha sede proprio lì, ha chiesto di allargarsi occupando suolo pubblico. Domanda approvata dagli uffici un po’ alla carlona, di tutta fretta, senza le necessarie verifiche e con immediata e piccata reazione di sindaco e assessori, all’oscuro di tutto. Immediato quanto già tardivo diniego: il gestore aveva subito preso possesso del posto, arredandolo (si fa per dire) con un bar semovente e con l’apparato necessario per ospitare gli avventori. Uno spettacolo da far accapponare la pelle ai puristi. E alla gente di buon senso. Apriti cielo: “Da lì quel coso deve sparire” pare sia stato l’ordine impartito dal sindaco Emanuele Antonelli.

Tolleranti sì, fresconi no. La macchina amministrativa si è subito messa in moto, più o meno tre settimane fa. Però senza cavare un ragno dal buco, fino a questo momento. Il bar en plein air è ancora lì, nonostante ordinanze, tentativi di accordi bonari, multe, verbali, minacce giudiziarie e chi più ne ha più ne metta. Con un intoppo ulteriore: il corto circuito tra enti, che non riescono a mettersi d’accordo su chi deve e come intervenire per sfrattare a forza l’ingombrante e imbarazzante chiosco. Comune, polizia locale e Agesp, comparto strumentali, si palleggiano le competenze. Paura di contenziosi o soltanto normativa farraginosa e, come sempre nel nostro Paese, interpretabile secondo convenienze per scansare le responsabilità? Sia come sia, il risultato, al di là dell’intreccio richiamato nell’incipit, è un colossale pasticcio. Di quelli che fanno scuotere la testa ai comuni mortali e pongono seri dubbi sull’affidabilità del “pubblico”.

Anche quando, come in questo caso, dato per scontato l’errore iniziale (il via libera del Comune sarebbe contenuto in una mail nelle mani del gestore), ci si trova di fronte a una questione di decoro urbano, di serietà di una città che non può essere confusa con Riccione o Varazze. Benché vi siano ragioni sanitarie, sociali ed economiche che ne giustificano gli eccessi, mai l’impotenza di un esecutivo municipale di fronte alla burocrazia e ai guai che crea e non sa risolvere. Soprattutto quando si vende con il marchio del decisionismo e invece, come in questo caso, fa la figura del babbeo.

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