Case di riposo: una strage, tanti perché

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E’ facile emettere sentenze dal divano di casa. Chi vive in prima linea l’emergenza coronavirus sa che cosa vuol dire combattere contro un nemico invisibile, pericoloso quanto sconosciuto. Ma nessuno di noi può esimersi dal prendere atto con sgomento della strage nelle case di riposo della Lombardia. Né può pensare che un così alto tasso di letalità tra gli ospiti delle Rsa sia soltanto la conseguenza di cause imponderabili, frutto di un assalto virale che non poteva essere gestito con cognizione di causa.

Se è vero che il coronavirus è un inedito, con tutte le terribili incognite sanitarie e gli altrettanto terribili effetti che si porta appresso, non sfugge il fatto che a un certo punto, quando ha cominciato a circolare diffusamente anche nel nostro Paese, chi di dovere avrebbe dovuto correre ai ripari attuando procedure rigorose ed efficaci, a tutela degli anziani ricoverati e degli operatori che li assistevano e li assistono. Perché in molte case di riposo ciò non è accaduto? Le eventuali responsabilità saranno accertate dalla magistratura, che sta indagando a tutto tondo per verificare e capire. Ma da subito, anche senza prove documentali, anche dal divano di casa, si può supporre che non si siano seguiti protocolli precisi per affrontare la situazione. Protocolli che forse nessuno si è mai peritato di redigere, né in passato né nell’immediatezza della pandemia.

Le colpe sono della Regione Lombardia alla quale è demandata la salute collettiva? Colpa delle Ats che avrebbero dovuto garantire tamponi, controlli e presidi adeguati per il personale e invece, in diversi casi, si sono chiuse a riccio, negando persino le minime informazioni? Colpa dei vertici delle singole case di riposo oggi nell’occhio del ciclone, che avrebbero dovuto sopperire alle inadempienze dell’ente pubblico accompagnando le legittime proteste con decisioni autonome e atti concreti? (Va ricordato che le degenze non sono a titolo gratuito, anzi). Un aspetto appare ovvio: la situazione è sfuggita di mano, forse per sottovalutazione del problema, per sciatteria, per pressapochismo, per inettitudine e incapacità gestionale, per tutto quel che potremmo immaginare, ma è sfuggita di mano. Il risultato è il disastro a cui assistiamo, con la tragica contabilità delle vittime tra gli anziani e non solo.

A confondere il quadro di riferimento c’è da considerare il fatto che non tutte le strutture assistenziali hanno aperto la porta al coronavirus, da molte di esse è rimasto fuori. Alimentando così la convinzione che la prevenzione non era affatto impossibile, che una maggiore attenzione avrebbe potuto evitare drammatiche conseguenze o, comunque, limitarle di molto. D’accordo, bisognerebbe essere in trincea per toccare con mano le infinite difficoltà generate dal contesto sanitario: l’onda dei contagi che ha interessato la Lombardia non è paragonabile a quella di altre realtà, un’onda incontenibile. Quanto meno all’apparenza e secondo le motivazioni delle autorità. Che hanno messo in campo il massimo – doveroso riconoscerlo – per porre un argine all’epidemia, loro, assieme a medici, infermieri e volontari.

Qualcosa però non ha funzionato come avrebbe dovuto, non soltanto nelle case di riposo. Ci sembra fuori di dubbio. Questo, senza voler gettare la croce addosso a chicchessia, né per il tentativo di trovare inadempienze tali da prefigurare il reato di epidemia colposa, come ipotizzano i pubblici ministeri nei fascicoli delle loro inchieste. Il turbamento, la rabbia, il dolore per quanto è accaduto e sta ancora accadendo non si possono però cancellare con la scontata e banale autoassoluzione di un dirigente di una Rsa: “Non potevamo fare di più”. Ammesso che molto sia stato fatto, si sarebbe dovuto fare di più e meglio.

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