I delusi della Lega e il rischio ribaltone

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Matteo Salvini e Giorgia Meloni, decisivo il nodo delle elezioni del 25 settembre

di Massimo Lodi

Insieme: così vuole l’ora solenne. Ma è un’unione di facciata. Sottende malumori, incertezze, nervosismi, divisioni. Nella Lega resta l’imprimatur leninista e nessuno dei militanti intrigati dalla gara elettorale osa esprimere dissenso verso il segretario. Però le sue determinazioni dal Papeete in poi han deluso la base, toccando il top alle ultime amministrative, quando i risultati sono stati l’opposto delle attese. E poi, qui al Nord e qui nel Varesotto, molti giudicano insensata la partnership con Conte, Berlusconi, Meloni nel siluramento di Draghi.

I piccoli e medi imprenditori, la costellazione artigiano-commerciale, l’esercito delle professioni eccetera fidavano nella continuità d’un esecutivo che aveva combinato del buono, al netto d’inevitabili compromessi ed errori. La loro garanzia si chiamava (si chiama) Giorgetti. I loro referenti erano, e ne ricevevano/ricevono ascolto, i presidenti di regione. La loro bussola ha per nome realismo, e pensavano che se ne sarebbe osservata l’indicazione.

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Massimo Lodi

È successo il contrario – incolpevoli Giorgetti e i presidenti di regione – suscitando disagio, sconforto, timori. Cupi timori. Pandemia non ancora vinta, crisi economica estremizzata dalla guerra in Ucraina, inflazione da brividi, drammatico orizzonte sociale: di fronte a quest’apocalisse non si manda a casa il più autorevole degl’italiani, né si passano settimane in tragicomiche liti a colpi d’illusoria propaganda, né si rischia di consegnare il futuro a un’incognita assoluta.

Tale è percepita, in periferie ancora fedeli al Capitano, la leader di Fratelli d’Italia, che secondo l’ultimo sondaggio lo ha doppiato, marcia verso Palazzo Chigi, potrebbe addirittura servirsi d’una maggioranza con presenza marginale della Lega, nel caso in cui dalle urne uscisse una “vittoria mutilata”. Cioè: obbligo d’indirizzarsi verso un patto inedito nel nome della salvezza nazionale.

Nel territorio dove il Carroccio ha mosso le ruote e oggi viene privato di titolarità nella scelta dei candidati al Parlamento, insiste l’avversione verso post fascisti, centralisti, sovranisti, romanisti. Svanito l’iniziale sogno dell’indipendentismo padano, gli sopravvive quello federalista, perlomeno declinato nella virtuosa attenzione che la metà più produttiva del Paese reclama dalla capitale politica. Se Salvini uscisse sconfitto dalla competizione fra alleati; se domani peserà meno di ieri nelle scelte governative; se la deriva avviatasi nell’agosto 2019 spiaggiasse sulla riva del settembre 2022 il relitto del barcone che navigò sull’onda del 34% alle europee; se tutto questo accadrà, il ribaltone interno diventa più che un’ipotesi, congresso permettendo. E nonostante le smentite di Zaia, Fedriga e frondisti che non ammettono certo ora d’essere tali. Ma la cui ombra si staglia dietro i riflettori d’ogni ripetitivo comizio.

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