Il “leghista leninista” che amava la libertà

occhiali roberto maroni

di Vincenzo Coronetti

Molti anni fa, durante un comizio, Roberto Maroni disse con voce stentorea: “Sono nato leghista, morirò leghista”. Ha mantenuto fede a quel proclama, nonostante la sua prematura scomparsa ci lasci sgomenti. Nonostante i segnali dell’epilogo fossero diffusi nelle indiscrezioni sul suo drammatico stato di salute delle ultime settimane. Nonostante Maroni ripeteva a chi lo andava a trovare o lo raggiungeva al telefono di “stare bene”. Uno che non voleva arrendersi, il ragazzo di Lozza, che un giorno dei primi anni Ottanta incontrò un tale, Bossi Umberto da Cassano Magnago, e ne rimase folgorato. Il tema era il Nord, la sua indipendenza: Bossi inventò la Lega, Maroni le diede dignità istituzionale. Non cosa da poco per un movimento che voleva dividere l’Italia e pensava che a Roma ci fossero soltanto “ladroni”.

Il Nord come la gallina delle uova d’oro per fare ingrassare chi comandava nella capitale. Il Nord con le sue istanze più o meno legittime calpestate dalla politica politicante di quegli anni. Veloce nello scrivere sui ponti dell’autostrada con la vernice bianca: Nord libero. Veloce lui, veloce il suo socio a capo della Lega, per non farsi sorprendere dalle pattuglie della Stradale. Ricordiamo i due, Bossi e Maroni, con gli stivali di gomma a capo di un nutrito gruppo di sodali, nel fango, ai margini della Milano-Varese, per opporsi alla costruzione del nuovo casello dell’A8 a Cavaria: epico.

Erano gli anni della grande illusione, un sogno che si sarebbe poi trasfuso nei “Barbari sognanti” che Bobo Maroni lanciò a compendio di un progetto destinato a dissolversi davanti alla realtà dei fatti. Che egli cavalcò da ministro del Welfare e poi, per due volte, dell’Interno. Posizioni dominanti, che hanno lasciato un segno positivo nei palazzi del potere, la lotta alla mafia, gli interventi per arginare l’immigrazione, e, prima al Welfare, le nuove norme sul lavoro redatte con un suo grande amico , il giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalla nuove Brigate rosse. Un lungo percorso istituzionale culminato con la presidenza della Lombardia, l’Expo e il referendum sull’autonomia della Regione due tra i traguardi di maggior significato. Fino alla mancata candidatura a sindaco di Varese, suggello di una carriera, per motivi di salute.

Quindi, la politica. E la Lega. Gli anni drammatici degli scandali, la notte delle scope a Bergamo (aprile 2012), l’assunzione di responsabilità per un partito crollato al 3 per cento dei consensi: Maroni lo prese per mano, salvandolo dall’abisso, riproponendo d’impeto uno slogan identificativo delle origini: Prima il Nord, che divenne il titolo di un suo libro (la scrittura, accanto alla musica blues del Distretto 51 e alla barca a vela, era una sua grande passione, fino alla stesura di un romanzo/thriller, “Il Viminale esploderà”, uscito il mese scorso. Il Viminale, non a caso, evidentemente!).

Certo, non sempre fu adesione convinta alla linea della Lega. Non l’ha mai nascosto, né a uno dei primi congressi al Palalido di Milano, quando Umberto Bossi pensava addirittura di espellere il suo “vecchio” compagno di tante battaglie e lui, in un angolo dell’assemblea, con gli occhi lucidi; né, ultimamente, quando non ha risparmiato critiche a Matteo Salvini, invocando un congresso per modificare sostanza e leadership del partito. Lo scriveva su Il Foglio, nella rubrica “I barbari foglianti”, contenitore delle sue idee, delle sue aspettative, del perpetuarsi di un sogno che tale è destinato a restare. I raduni di Pontida, la dichiarazione di indipendenza di Venezia, le ampolle alla sorgente del Po, le sparate di Bossi in canottiera, pur nella loro diversità e sostanza, rimangono nell’immaginifico leghista momenti decisivi di un’avventura alla quale Roberto Maroni ha partecipato da protagonista. E con grande impegno personale.

Oggi tutti lo ricordano con affetto e commozione, per la disponibilità, per quella gentilezza verso gli interlocutori che pochi politici possono vantare, per il senso dell’ironia che rivela l’intelligenza. Per la coerenza e per quel tenere la schiena dritta anche nelle circostanze più difficili. Sarebbe riduttivo catalogarlo come un “bravo politico” e una “brava persona”. Lui, che considerava la Lega un partito leninista e forse tale si sentiva, era molto di più. Un “leghista leninista” che amava la libertà.

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