Il “Cairolino” Maroni, prima varesino e poi leghista

di Massimo Lodi

Che fosse prima un varesino e poi un leghista lo testimoniò, anni fa, l’attribuzione del Cairolino, il premio assegnato dal liceo classico agli studenti che si son fatti strada grazie al merito. Ci ritrovammo, dopo molti anni al Golf di Luvinate. Una serata di chiacchiere. Anzi, di battute, motteggi, ironie. L’intrigavano, anche qualora risultasse lui il bersaglio. Ne abbondava nella rubrica “I barbari foglianti”, iniziata più tardi sul quotidiano di Claudio Cerasa. Chiudeva ogni pezzo settimanale con l’avviso: “Stay tuned”. Cioè all’erta. Da sempre un prediletto mantra: occhio alle fregature, in agguato perenne. Oppure: attenzione alla realtà, ha due/tre/ics facce. O ancora: meglio la certezza del dubbio, ma solo se il dubbio è una certezza.

Conobbi Maroni nei corridoi del Consiglio comunale della città, quando li frequentava da “carbonaro” assieme a Bossi e Leoni. Seconda metà degli anni Ottanta: la bandiera sua e dei sodali era l’autonomismo, destinato a prevalere sulle idee di sinistra-sinistra, maturate sotto l’insegnamento scolastico del professor Cesare Revelli e nelle file di Democrazia proletaria. Il trio occhieggiava dentro l’aula e parlottava fuori, con critico sarcasmo verso un modo/una moda politici che di lì a poco avrebbe rivoluzionato. Fu Maroni il promotore dell’insediamento a Palazzo Estense di Raimondo Fassa sindaco, stretta l’intesa col post comunista Daniele Marantelli. Diventarono amici, il “leghista romantico” (Maroni) e il “leghista rosso” (Marantelli).

Formidabili quegli anni: da Capanna al Senatùr, il trasloco ideologico avvenne cavalcando la protesta montante nel Paese, innescata da Tangentopoli. E Varese ebbe a Roma un tre volte ministro e un vicepresidente del Consiglio. Ala moderata e mica estremista dell’esercito bossiano, dialogante invece che bellicoso, pragmatico e non velleitario. Gliene rese merito Silvio Berlusconi, che considerava Maroni – pur se mai lo disse- un suo giocatore prestato alla squadra gemella. Non per accordi presi, ma per naturalezza dell’intesa personale.

Del resto, che l’arte diplomatica fosse nel bagaglio dell’ops/leninista Bobo, apparve subito chiaro, nonostante le condivisioni secessioniste e altro del padanesimo spacca-Italia. Andava in giro a ricoprire di vernice biancoverde i muri del Varesotto, per propagandare gli slogan battezzati dall’Umberto. Ma usava scrivere con accorta perizia a rivali politici, giornali di sfavorevole linea editoriale, interlocutori vari e distanti dal suo pensiero. Più che recitare una parte in commedia, seguendo il canovaccio imposto dal Capo, sembrava rispondere a una personale inclinazione al virtuosismo da ambasciatore. Uomo di ricomposizione anziché di rottura.

In questo, molto varesino. Glielo riconobbero, proprio al Golf di Luvinate, gli Amici del liceo classico, che di Maroni apprezzavano l’export dei fondamentali d’una certa visione del mondo imparata nelle aule di via Dante. A obiezioni mossegli circa insufficienze e sbagli nella conquista/gestione del potere, rispose ch’era il prezzo dovuto dal dire al fare. Ma con lealtà intellettuale.L’inorgogliva che qualcuno lo equiparasse, come varesino al servizio delle istituzioni, al suo predecessore ministeriale Giuseppe Zamberletti. Campi diversi d’azione, opposta cultura politica di partenza, però medesimo criterio ispiratore dell’attività di governo. Privilegiando l’operosità all’inerzia, l’omaggio dell’avversario invece della scomunica, la mediazione all’arroccamento, il garbo alla ruvidezza. Una storia che gli aveva valso la nomina da parte del governo Draghi a capo della commissione anticaporalato e impedito di schierarsi col salvinismo rampante. Resistendovi tramite una voce utile a correggere rotte inimmaginabili per un velista come lui, come Bobo, conoscitore di venti, onde e approdi non iscritti nel libro di bordo del Capitano.