Il mio incontro con Dante, il poeta della speranza

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Ho incontrato Dante, per la prima volta, all’età di 15 anni. Alunno, frequentavo allora la 1.a Liceo Classico al “Nicola Spedalieri” dei Benedettini di Catania. Si era sul finire di novembre del 1951.

Ricordo quella mattina l’ingresso in aula del professore di Letteratura italiana. Personaggio singolare. Squinternato nel vestire. Spettinato. E tuttavia elegantissimo. Teatrale. Non aveva ancora raggiunto la cattedra e già leggeva i primi versi della prima Cantica “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita. / Ahi quanto a dir qual era è cosa dura…”.

Una voce tonante. E intanto, a piccoli passi, avanzava verso la cattedra. Faceva effetto il suo sguardo. Tra lo smarrito e il terrificante. Si rese conto ad un tratto che la classe potesse essere attraversata da tacite oscure preoccupazioni. Perciò disse: «Ragazzi, non siate ignavi e non angosciatevi. Da ora in avanti, per tre anni, leggeremo la Commedia del divino poeta. Leggeremo di cose tristi e
penose, ma anche di eroiche virtù e di bellezze ineguagliabili. E già alla fine di questa annata, dopo i torbidi infernali, torneremo insieme “a riveder le stelle”».

Tacque per un po’. Ed io ricordo che a quelle parole del nostro maestro mi sentii rincuorato. Mi parve di intendere che quelle letture ci avrebbero aiutato a crescere. Ad uscire dallo stato di adolescenza. A migliorarci. Vivevo allora la condizione inquieta degli adolescenti che hanno voglia di superare barriere e che, tuttavia, hanno paura di crescere. Mi persuase, allora, l’idea che saremmo tornati “a riveder le stelle”. Anzi, questa idea mi conquistò. Dante sarebbe stato per me e per tutti noi di quella classe il poeta della speranza.

Saremmo andati alla ricerca del sublime. Tutti noi di quella classe – ciascuno per il suo verso – avremmo compiuto un complicato viaggio di superamenti, di progressivi avanzamenti verso la pura bellezza. Leggeva il professore dal testo commentato da Carlo Grabher. Non sapevo ancora che da lì a qualche anno Carlo Grabher sarebbe stato il mio maestro di letteratura nelle aule universitarie. Con le lezioni accademiche, avremmo affrontato gli studi danteschi per una storia di letteratura comparata e, sulle tracce dell’arabista spagnolo Miguel Asin Palacios, i parallelismi per una indagine sulla escatologia islamica.

Si voleva nel tormento di complicate polemiche gettare un ponte di intensa comunicazione con l’altra parte del mondo. Una barca di salvezza che per gli scopi della ricerca utilizzava il fascino delle culture orientali. Un ponte ideale che giovasse alla pacificazione dei popoli. E, ancora una volta, Dante continuava ad essere “il poeta della speranza”. La speranza “che è più forte della morte”, come oggi
dice papa Francesco in uno dei suoi recenti pronunciamenti in Iraq.

Anni più tardi, dalla cattedra del Liceo Galilei, provai a leggere ai miei alunni il testo della Commedia con in mente quell’antico assioma: con il pensiero che i miei ragazzi potessero crescere e farsi migliori. E, ancora oggi che mi son fatto vecchio, dal balcone di casa mia a 50 metri guardo la palazzina, un po’ liberty e ormai tristemente deserta, che in Legnano tra via Verri e via Bissolati ospitò per anni il mio Liceo. Guardo e penso che il lavoro fatto allora con la lettura della Commedia abbia potuto produrre germogli incoraggianti per la vita dei miei alunni e per le sorti della città. Così oggi io penso. E così mi auguro. Ma che sarà? Che non sia una vaghezza senile? O una dolce illusione? O la mia estrema inguaribile speranza?

Prof. Giuseppe Conte

Associazione Liceali Sempre

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