Il virologo Palù: «Virus un po’ meno aggressivo, ma resterà in mezzo a noi»

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BUSTO ARSIZIO – È iniziata la discesa: lenta. In fondo si vede la luce, ma è presto per dire quanto sia ancora lungo il tunnel di questa crisi sanitaria. Anche perché il virus potrebbe essere diventato meno aggressivo, ma “gira” ancora. E non è detto che verrà debellato, potrebbe diventare “umano”. Quindi, come per altri virus persistente nella popolazione e ricorrente stagionalmente. Di sicuro il Covid-19 non passerà nel giro di un anno come la Sars o la Mers e il segno che lascerà, in termini di contagi e vittime, sarà molto, ma molto più alto.

A tracciare, per quanto possibile, un quadro della situazione di questa lunga e dura crisi sanitaria per Malpensa24 è Giorgio Palù, virologo tra i più considerati in Italia e all’estero, docente emerito in Microbiologia all’Università di Padova, professore di Neuroscienze a Philadelphia e presidente uscente della Società europea di virologia. Una voce, quella di Palù, a volte critica nei confronti del pullulare di esperti in virus: «L’Italia è diventata un paese di virologi. Peccato che non sia così», e che assomiglia alla diffusione dei ct della nazionale quando ci sono i Mondiali di calcio. Una voce che in questi mesi di epidemia si è contraddistinta per i toni, mai urlati; per le riflessioni scientifiche sulla diffusione e sull’evoluzione del virus, ma anche per le posizioni espresse che a volte, pur non avendo fatto piacere a molti, si sono rivelate verità. Una su tutte: la differente gestione dell’emergenza tra la Lombardia e il Veneto. Rispetto alla quale il virologo ha solo messo sul tavolo i differenti approcci: quello ospedaliero “spinto” lombardo e quello veneto dove prima dei ricoveri è entrato in azione il filtro fatto da medici di base e servizi di igiene della Asl territoriali.

Professor Palù, da qualche giorno si parla più della Fase 2 che dell’entità del contagio in questo momento. E’ possibile dire a che punto siamo? 
«La curva sta deflettendo, questo è chiaro. Ma la situazione non è omogenea. Varia da Regione a Regione. E anche all’interno di una Regione vi sono situazioni differenti».

E’ il caso della Lombardia, la più colpita dal Covid-19. E così? 
«Sì, in Lombardia abbiamo situazioni differenti. Codogno, il primo focolaio è sceso. Ma Milano cresce. E qui incidono una serie di variabili che in qualche modo facilitano il passaggio del virus: la densità di popolazione e la conformazione urbanistica».

Insomma, non se ne viene fuori? 
«Se ne viene fuori. Certo dire quando servirebbe la sfera di cristallo. Molto dipende dalla velocità di flessione dei contagi. Prendiamo Wuhan e la linea gaussiana che mostra salita e decrescita del contagio. In Cina il Covid si è diffuso rapidamente e altrettanto velocemente i contagi sono scesi. La curva italiana invece, giunta al suo apice di crescita forma come una spalla più estesa, questo perché la linea scende molto più lentamente rispetto alla crescita. Ciò significa che i tempi saranno più lunghi».

Quindi al momento l’unico vaccino è rappresentato dalle restrizioni. Non c’è altra soluzione?
«Il rispetto delle regole imposte per contenere la diffusione dei contagi è certamente il metodo più efficace al momento. Gli studi sul vaccino avanzano e quando arriverà darà certamente un aiuto importante a contrastare il virus. Però occorre fare anche altre considerazioni».

Quali?
«Che questo infetta più della Sars ed è più efficace nei contagi. È un virus che muta, ma non sappiamo quanto velocemente e come. Però oggi è meno aggressivo e nel corso del tempo potrà perdere ancor di più la sua virulenza. È altrettanto vero che se si adatta all’uomo potrà anche persistere. E ritornare. Cioè ce ne libereremo magari per un po’, ma diventando endogeno si potrà ripresentare».

Significa che tra qualche mese potremmo essere di nuovo punto e a capo?
«No, ci sono altri virus che non abbiamo debellato e che sono stagionali. I raffreddori o l’influenza ad esempio. Se ciò avverrà impareremo a conviverci».

Quindi è corretto pianificare una ripartenza sia della vita quotidiana sia della ripresa delle attività. Ma la ripresa a “macchia di leopardo” non potrebbe riaccendere focolai?  
«Un regia unica nazionale, ma aggiungerei europea sarebbe auspicabile per evitare che ognuno vada per conto proprio. È però vero che ci sono regioni in Italia che hanno ormai superato il problema, altre che sono state toccate in maniera marginale e altre zone che invece sono ancora alle prese con la discesa del contagio. Ciò significa che non è semplice. In Italia, ma anche in altri Paesi d’Europa e del mondo dove i governi, in alcuni casi, si sono affidati a poche menti pensanti per definire le strategie. Qui da noi vedo che c’è una commissione tecnica composta da 17 persone. Guidata certamente da un manager di valore come Colao, ma con 17 teste che dovranno decidere. Insomma…».

Pessimista? 
«Assolutamente no. In casi come questi bisogna sempre valutare rischi e benefici. E vedere dove pende l’ago della bilancia. Ripartire potrebbe provocare una ripresa dei contagi o creare nuovo focolai. Ma la domanda da porsi è: “Si è in grado di controllarli? Di gestire la situazione?”. E in base alla risposta e all’eventuale beneficio si decide».

Un’ ultima domanda, cosa ci ha insegnato questa crisi? 
«Che ci siamo trovati ad affrontare un virus nuovo. Sconosciuto. E che non sarà l’ultimo. Ne incontreremo altri e questo è dovuto anche al fatto che l’uomo con le sue attività modifica sempre di più e in maniera sempre più veloce il pianeta e i rapporti tra gli ambienti e specie viventi che li abitano».

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