La Lega ribolle ma nessuno ha la forza di spodestare Salvini

E’ più facile che Matteo Salvini cambi linea, piuttosto che la Lega cambi Matteo Salvini e metta al posto del capitano un traghettatore o un nuovo condottiero. Almeno per ora. Anche se in entrambi i casi il risultato dell’operazione non è scontato. E non è detto che sia migliore. Di certo, al momento, c’è una base smarrita, che non sa bene in quale Lega stia militando, che sogna un ritorno al passato (magari non quello remoto delle ampolle alla foce del Po, piuttosto quello più prossimo dell’autonomia su scala regionale) e che è divisa tra i bei tempi del Carroccio al 30 e passa per cento e il ritorno alla realtà: una picchiata da montagne russe che scombussolerebbe anche il più impavido braveheart.

Soprattutto se, tra cielo e terra, ci hai messo dentro un po’ tutto (vaccino sì – vaccino no, si mask – no mask, il voto al reddito di cittadinanza, lotta e governo con Draghi premier) per lasciare sguarnito il campo dei temi nordisti (difesa delle imprese, soprattutto le Pmi, la questione dei frontalieri, la pressione per la messa a terra dell’autonomia regionale). Una prateria per anni prettamente leghista e diventata ormai campo aperto in cui oggi “pascolano” tutti i partiti.

Ma i mal di pancia, oltre che profondi sono anche acuti. E ne soffrono anche i livelli che stanno (in un’ipotetica scala) qualche gradino sopra la base. I consiglieri regionali, i parlamentari uscenti non più candidati o non rieletti, i governatori. Financo i saggi come Bobo Maroni (che pure in passato ha usato la scope e ramazze, non dimentichiamolo) che non hanno un ruolo preciso, ma neppure il bisogno di chiedere “permesso” per metterci becco. Ed è forse proprio qui la questione.

Oggi la Lega, come scrive Carmelo Caruso sul Foglio, assomiglia alla Ddr. O alla Jugoslavia finché c’era Tito. Un partito rovente per l’8% uscito dalle urne, ma che la guerra fredda in corso non ha ancora reso incandescente. Perché tutte (o quasi tutte) le leve di comando sono nelle mani del Capitano. Che ha perso la partita del 25 settembre, ma non molla la fascia al braccio. Un Salvini che sa di essere nell’occhio del ciclone, che sente il “rumore dei nemici” avvicinarsi, ma non vede il condottiero pronto a sfidarlo.

Perché la verità è che è che questa Lega, e con essa i leghisti, brancolano nel buio, divisi tra un’inevitabile visione nazionale, continentale, mondiale della politica, della società e dell’economia, e il campionario fatto di rivendicazioni identitarie, territoriali, localiste. Che, finita la festa e chiuse le urne, viene riposto in soffitta poiché al momento nessuno si è preso la responsabilità di accendere la luce.