L’Africa parla cinese

nel 2021 gli scambi bilaterali hanno superato la cifra di 254 miliardi di dollari

Le strategie cinesi in Africa

di Alessandro Belviso

Il continente nero offre risorse quasi illimitate: petrolio, legname e minerali rari come il coltan, fondamentale per la produzione degli smartphone. Ma l’incertezza politica e la debolezza dei poteri degli Stati non permette alle popolazioni locali di guadagnare ricchezza dall’estrazione delle materie prime. Oltre l’80% di questi beni vengono esportati in altri continenti, come nel caso dell’uranio utilizzato dalla Francia per alimentare le centrali nucleari ed ottenuto a prezzo stracciato dalle ex-colonie.

Storicamente sono state le potenze europee ad essere avvantaggiate nella corsa a questi tesori. Ma negli ultimi 15 anni un attore defilato dalle vicende africane del Novecento ha deciso di irrompere: la Cina. Il dragone è da ormai 12 anni consecutivi il principale partner commerciale del continente, e nel 2021 gli scambi bilaterali hanno superato la cifra di 254 miliardi di dollari, in crescita del 35,3% su base annua. L’Africa ha esportato per 106 miliardi di dollari in Cina con una crescita del 43,7% nello stesso periodo, questo secondo l’Amministrazione delle dogane cinese. Pechino non ha concorrenti anche per un’altra voce importante, ovvero quella degli investimenti infrastrutturali. Considerando il periodo 2007-2021, le 2 principali banche cinesi hanno immesso 23 miliardi di dollari, contro i soli 9 miliardi di tutti gli istituti di credito mondiali. La ricchezza del governo di Xi Jinping fa gola a tutti, stati africani compresi. L’ascendente orientale sull’Africa si basa anche sul passato non coloniale di Pechino e sulla scelta di non immettersi nelle politiche nazionali, cosa che invece hanno fatto in passato gli occidentali. Ma gli interessi cinesi non sono solo quelli incentrati sullo scambio di materie prime in cambio di prestiti. Hanno perfezionato una strategia per ottenere potere politico, senza intervenire direttamente. Il denaro ceduto deve essere restituito, attraverso delle clausole spesso svantaggiose per chi li ottiene. Per esempio Gibuti (prima base permanente cinese in Africa)  ha ottenuto 15 miliardi di dollari per costruire hub commerciali. In caso di inadempienza Pechino otterrebbe il controllo diretto del porto strategico di Doraleh. Gli investimenti vanno però difesi, ecco perché nell’ultimo summit Cina-Africa a Dakar si è parlato molto della possibilità di aumentare la presenza militare in 12 nazioni oltre al Gibuti (tra cui Kenya, Tanzania e Namibia) e sono state annunciate esercitazioni congiunte per vari scopi. La Cina è ormai il secondo fornitore di armi nell’intero continente. Sempre nella stessa sede si è parlato (superficialmente) della possibilità di istituire una nuova moneta legata allo yuan. Infine da oltre 20 anni Pechino invia manodopera agricola dalle regioni rurali; l’anno scorso ha investito 5 miliardi di dollari nell’agricoltura. Il flusso migratorio è imponente (anche se sui numeri precisi il governo non si sbottona) e l’intento finale è quello di delocalizzare la produzione di cibo. Prosegue la fase di espansione cinese.