L’Aquila è la nuova casa di 70 ciclisti e cicliste afghani. Ecco la loro storia

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L’AQUILASono arrivati mercoledì mattina all’alba, dopo un viaggio durato 11 mesi. Un viaggio per il quale hanno dovuto salutare i propri cari e la propria terra, con la promessa di poter tornare un giorno, senza più avere paura. Sono 70 afgani, quasi tutti di etnia Hazara e legati al mondo del ciclismo: sono arrivati a L’Aquila, dopo essere atterrati all’aeroporto di Fiumicino con un volo umanitario che ha portato 300 persone nel nostro Paese.

In Abruzzo adesso aspettano di iniziare le loro nuove vite, attraverso un percorso appositamente costruito per loro. Il salvataggio è stato possibile grazie a un gruppo di persone che hanno raccolto il grido di aiuto di quelle cicliste che, nell’Afghanistan occupato dai talebani, erano state condannate perché ritenute impure. Quasi tutte correvano in bici, alcune facevano parte della nazionale afgana, altre correvano con le squadre del Bamyan, di Kabul e di Herat e avevano un sogno comune: quello di sentirsi atlete tanto quanto i loro amici maschi e di correre in Europa e forse arrivare alle Olimpiadi.

Alcune ragazze lo scorso agosto riuscirono a scappare in vari Paesi, grazie ai voli umanitari che partivano dall’aeroporto di Kabul. Ma dopo l’attentato di Abbey Gate tutto è precipitato e quasi tutte le cicliste afgane sono rimaste intrappolate.

La catena per il loro salvataggio è iniziata dal contatto con la giornalista Francesca Monzone, che con loro aveva iniziato a costruire un rapporto di fiducia nel 2015. Dopo aver messo al sicuro un primo gruppo di 20 atlete che dovevano essere evacuate, è iniziata la ricerca disperata di qualcuno che potesse portare in salvo tutte le ragazze.

La richiesta di aiuto è stata immediatamente raccolta da Sylvan Adams e dalla sua squadra, la Israel-Premier Tech, che grazie anche alla ONG IsraAid hanno allestito una vera e propria squadra di salvataggio. Un aiuto fondamentale è stato dato dai ciclisti della nazionale maschile, gli stessi che scortavano le cicliste durante i loro allenamenti, quando venivano prese a sassate o qualcuno cercava di investirle con le auto. Un primo gruppo formato da oltre 120 ragazze ha attraversato il confine con pullman durante la notte, dirigendosi verso Doha. Giorno dopo giorno, però, il trasferimento diventava sempre più complicato, perché i talebani intercettavano i pullman facendoli tornare indietro. Adams e IsraAid intanto hanno fatto arrivare in Svizzera anche un aereo con oltre 160 persone e tra loro c’erano diversi ciclisti che hanno trovato accoglienza in quel Paese grazie all’UCI.

C’era però un gruppo numeroso, che continuava a rimanere nascosto e per il quale ogni tentativo di fuga era andato in fumo. A quel punto i piani sono stati tutti rivisti e l’unica via di fuga possibile, ma anche pericolosa, era attraverso il Pakistan che lasciava uscire gli afgani in possesso di visti. Attraverso una rete ben organizzata di aiuti internazionali, le ragazze sono state fatte uscire dal loro Paese a bordo di auto private, guidate da autisti perfettamente preparati a qualunque tipo di scenario. Una volta avvisate le ragazze, c’era il saluto con la giornalista italiana e con i familiari e poi il telefono veniva spento e riacceso solo dopo aver attraversato il confine. Tante foto sono state scattate davanti al filo spinato, con i primi sorrisi e un cuore disegnato con le mani e poi di corsa verso Islamabad, per tornare poi indietro e prendere altre ragazze.

Uno dei viaggi più difficili è stato quello di Somaya e Hamid e dei loro due bimbi di 9 mesi e 2 anni. Erano sotto l’occhio dei talebani e non c’erano macchine per passare il confine e dopo due giorni nascosti sulle montagne del Bamyan hanno chiamato la giornalista italiana dicendole che non avevano nulla da perdere e che avrebbero raggiunto il confine da soli.

C’è un selfie fatto da Hamid mentre abbraccia la moglie e i due bambini, è l’ultima foto fatta in Afganistan e mandata alla giornalista per salutarla: poi, due giorni di silenzio per riaccendere il telefono dopo il confine, quando ad attenderli c’era un uomo dell’organizzazione che ha scortato tutti fino a Islamabad.

Una storia simile è quella di Muktar e di sua sorella, due sciatori aiutati da un gruppo in Francia e che con la mamma hanno passato il confine grazie al coraggio di Qurban, un ciclista del Bamyan che ha perso l’intera famiglia sotto il fuoco dei talebani.

In 70 sono riusciti a passare il confine e tra loro anche le ultime cicliste appartenenti alla famiglia Mohammadi, fondatrici della prima squadra di ciclismo in Bamyan e portata in salvo in Germania lo scorso novembre. Tra loro c’è Mahnaz, la più piccola del gruppo di cicliste, che parla un inglese perfetto e che in questi mesi ha iniziato a studiare l’Italiano.

Mahnaz vuole correre in bici e sogna di diventare un medico, mentre sua cugina Zohra spera di diventare un avvocato per aiutare altre donne afghane. Oggi sono tutti in Italia, ma il loro viaggio non è stato facile e, anche se c’erano i fondi per pagare tutte le spese, hanno dovuto attendere tanti mesi prima di ottenere il visto.

Così Francesca Monzone ha iniziato a bussare e a scrivere a chiunque finche un giorno, arrivata presso gli uffici UNHCR, le è stato spiegato a chi doveva rivolgersi. Fondamentale in questa storia è stato l’incontro con Sandra Sarti e Rosanna Oliva de Concilis, due ex funzionari di Stato, che immediatamente hanno preso a cuore la storia delle cicliste afgane offrendo sostegno grazie alla loro associazione “Rete per le Parità”, che aveva un programma specifico di inclusione per le donne afgane. Rosanna Oliva de Concilis, è stato il primo prefetto donna italiano e grazie ai suoi ricorsi e alle sue battagli, per le donne sono stati aperti quei concorsi pubblici che negli anni Sessanta erano riservati solo agli uomini.

Un’altra porta alla quale la giornalista italiano ha bussato è stata quella della FCEI, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e firmataria dell’accordo per i corridoi umanitari dall’Afganistan con il Ministero degli Esteri.

Alla Farnesina è arrivato il punto di svolta per aprire le porte dell’Italia alle ragazze afgane grazie all’aiuto del vice ministro Sereni, consapevole della vulnerabilità di quel gruppo.

C’era il viaggio aereo, borse di studio e la possibilità di entrare in Italia, mancava però un posto sicuro che potesse ospitare l’intero gruppo. E’ arrivata così la solidarietà della città dell’Aquila, la stessa che ha accolto la nazionale di ciclismo ucraina. Il sindaco Biondi ha immediatamente risposto alla richiesta di aiuto ed è stato siglato un accordo tra Comune ed  FCEI, capolista del protocollo, con il sostegno di Rete per le Parità, Israel-Premier Tech e IsraAid.
Trattandosi di sportive non poteva mancare il sostegno del Coni e della Federciclismo, in particolare con il presidente Malagò che ha seguito l’intera storia di queste ragazze. All’Aquila a fare da super visori ci saranno il presidente del Coni Abruzzo Imbastato e il presidente del Comitato regionale della FCI Marrone.

Il gruppo è arrivato in Italia grazie ai fondi di tanti sponsor privati, quasi tutti stranieri, che hanno voluto salvare queste atlete, lavorando anche per offrire loro un percorso ben strutturato, che le aiuterà a costruire il proprio futuro.
I 70 afgani sono arrivati mercoledì all’aeroporto di Fiumicino con l’aereo di Open Arms pagato da Sylvan Adams e dalla sua Israel-Premier Tech. Adams è venuto di persona a Roma per conoscere quelle ragazze che aveva iniziato ad aiutare quasi un anno prima e a tutti  ha voluto donare un abbraccio, seguito dalla frase: «Adesso sei finalmente libero». Adams, che ha aiutato anche gli atleti ucraini, ha promesso che tornerà in Italia e andrà a trovarli all’Aquila, dove il sindaco ha proposto un incontro ufficiale. 

I ragazzi e le ragazze hanno chiesto di poter tornare presto a correre, perché il sogno di molti di loro era quello di correre in Europa, dove ci sono il Giro d’Italia e il Tour de France. Conoscono Pogacar e anche Van Aert e sperano un giorno di prendere parte a gare internazionali.  La Fedeciclismo ha offerto il proprio sostegno, li aiuterà a prendere parte alle gare nazionali, così come ha fatto con i ciclisti ucraini.

Per tutti loro è iniziata la nuova avventura all’Aquila e il sindaco Biondi ha offerto per ospitarli le case in cui gli aquilani hanno vissuto dopo il terremoto. Nuove pagine della storia di questo gruppo devono essere ancora scritte, ma i gesti di solidarietà ed altruismo non sono mancati: appena arrivati nelle loro case, tutti hanno trovato doni e cibo offerto dagli abruzzesi, che in questo modo hanno voluto dargli il ben venuto. Vivere in Italia non sarà facile per loro, perché in Afghanistan hanno lasciato le loro famiglie, ma la rete di solidarietà non si fermerà e il prossimo obiettivo sarà quello di aiutarli a ritrovare i loro cari, cercando di portare anche loro nel nostro Paese.

Articolo a cura di Tuttobiciweb.it

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