Cronaca di un disastro annunciato – Parte prima

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di Adet Toni Novik

So che la casalinga di Voghera, nota influencer suo malgrado, è disorientata. Come mai si chiede, dopo che abbiamo appena festeggiato i 30 anni del codice di procedura penale è necessario cambiarlo nuovamente, introducendo quello che molti dicono essere un ammazza processi? A questo punto, si chiede ancora, a che serve un processo penale? Raccolgo le sue domande.

Ho un po’ di esperienza sul campo, 40 anni non sono pochi, trascorsi in (quasi) tutte le funzioni penali – Pretore, giudice di tribunale, Gip, presidente di sezione penale di tribunale, Corte di Cassazione penale (mi manca l’appello) – per cui provo a rispondere. Per necessità di spazio devo essere assertivo, e me ne scuso.

A cosa serve il processo? Nella fase avanzata della civiltà, lo Stato, superando la vendetta privata, ha assunto su di sé il compito della protezione dei cittadini. Lo Stato individua quelli che sono i valori da tutelare e li circonda da una sanzione, crescente a seconda del livello di gravità. Il processo, davanti ad un giudice terzo, è il luogo in cui si valuta la responsabilità della persona accusata. Il principio è che al bene si risponde con il bene, al male con il male. Il male nel processo è la sanzione penale che deve rispondere a due requisiti fondamentali, certezza e efficacia. Una sanzione, per quanto dura, se gridata ma non applicata è del tutto inutile. È un cane che non morde. Nel tempo, le norme sono state raggruppate in testi, chiamati codici (per dire, il primo codice conosciuto è quello di Hammurabi del 1792 a.c.). Per loro natura i codici sono destinati a durare nel tempo, il cambio di codice segna il passaggio da un’epoca ad altra.

Senza andare ai codici preunitari, il Codice Zanardelli rimase in vigore dal 1913 al 1942 e fu sostituito dal Codice Rocco per adeguare il processo alle idee del fascismo. La filosofia del codice Rocco, coerentemente con l’idea di uno Stato forte, si basava sul principio inquisitorio. Il pubblico ministero durante le indagini acquisiva le prove che proiettavano l’efficacia anche nel dibattimento. Il ruolo del difensore nelle indagini era attenuato, ma si espandeva pienamente nel dibattimento, dove però doveva confrontarsi con prove acquisite in sua assenza. Il codice del 1942 fu sostituito nel 1989 dal codice Vassalli. Lo spirito era l’introduzione del rito simil-accusatorio per porre sullo stesso piano l’accusa con la difesa. Con una certa enfasi si richiamò Perry Mason. Anticipo subito che in un convegno di studi, il prof. Coppi confrontandosi con il codice del 1989 ebbe a dire “Ma veramente voi pensate che con il codice Rocco noi avvocati fossimo danneggiati dall’acquisizione delle prove in istruttoria? A noi andava benissimo, perché se dovevamo scorticare un testimone lo facevamo”. Nella visione dei compilatori del codice il pubblico ministero doveva svolgere una istruttoria snella, limitata a verificare la necessità del giudizio, nel cui ambito si sarebbero dovute assumere le prove nel contraddittorio dell’accusa e della difesa. Spariva la figura del giudice istruttore e al suo posto nasceva il giudice per le indagini preliminari (GIP) che interveniva in specifici snodi processuali. Non un giudice del processo, ma un giudice per singoli atti: i più importanti, le archiviazioni, le intercettazioni e le misure cautelari. Per i reati più gravi era prevista l’udienza preliminare: il giudice per le indagini preliminari assumeva la figura del giudice per l’udienza preliminare (GUP) e se riteneva sufficienti le prove raccolte dal Pm rinviava a giudizio l’imputato con un decreto non motivato, altrimenti lo proscioglieva con una sentenza motivata.

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Adet Toni Novik

Nel processo venivano introdotte le misure deflattive, il patteggiamento, un accordo sulla pena, e il giudizio abbreviato, un giudizio fondato sulle prove acquisite dal Pm. Entrambi prevedenti uno sconto di pena, nel limite massimo di 1/3. Il dibattimento, nelle previsioni dei compilatori, avrebbe dovuto avere carattere residuale. Al momento della richiesta di rinvio a giudizio, valutate le prove e di fronte alla previsione di una condanna, certa o probabile, l’imputato avrebbe optato per un rito alternativo, pur di lucrare lo sconto di pena. Secondo le previsioni, in linea con il modello americano, si stimava che il 95% dei processi si sarebbe concluso con uno di questi riti, similmente a quanto avviene negli USA, dove il 95/98% dei procedimenti termina con un patteggiamento. Si dimenticava però che negli USA il patteggiamento può riguardare anche le imputazioni –un omicidio volontario può essere derubricato in colposo, e addirittura il prosecutor può garantire l’impunità-, mentre in Italia i vincoli costituzionali e l’obbligatorietà dell’azione penale ammettono che il patteggiamento possa riguardare solo la pena. Inoltre, negli USA, l’imputato sa bene che rifiutando un patteggiamento conveniente nel giudizio può essere condannato ad una pena elevatissima, mentre in Italia anche nel dibattimento la pena deve essere parametrata al fatto commesso, e non può avere un effetto punitivo per l’imputato che non ha scelto un rito alternativo. Anzi, si è visto che in processi con più imputati la pena finale per quello che ha richiesto il giudizio è stata uguale o di poco superiore a quella di chi ha patteggiato o ha scelto il rito abbreviato.

Evidentemente, chi ha scritto il codice ha confuso l’Italia con la Finlandia o con l’Islanda. Il fenomeno criminale italiano è noto per la presenza diffusa della criminalità mafiosa, che in alcune regioni ha preso il posto dello Stato, cui si aggiunge la natura criminogena di una non minima parte della popolazione (reati ambientali, corruzione, evasione fiscale, reati finanziari). In definitiva, i riti alternativi sono falliti e hanno avuto una applicazione residuale soprattutto nei casi di arresto in flagranza, quando la prova della colpevolezza è evidente. Alcuni numeri fotografano questa realtà: nel biennio 2018/2019 i riti alternativi totali sono stati il 7% dei procedimenti penali totali, e rispetto al decennio precedente si sono dimezzati passando da 330.000 a 168.000. Conseguenza di politiche criminale fallimentari che hanno fatto nascere il convincimento che è meglio percorrere tutta la strada giudiziaria (primo grado, appello, cassazione) tanto in carcere si va solo per i reati gravissimi. Per gli altri, basta un buffetto sulla guancia e agitare il ditino dicendo “Mi raccomando non farlo più”.

Il processo penale come ideato ha mostrato subito le sue pecche. Le sentenze della Corte costituzionale, con l’obiettivo di preservare la verginità intellettuale del giudice (pomposamente presentata come necessità di vincere la forza della prevenzione, per cui il giudice che ha arrestato l’imputato è portato nel giudizio a mantenere ferma questa convinzione e condannare), hanno creato incompatibilità a pioggia e fatto sì che un singolo processo fosse esaminato da più giudici, creando disfunzioni soprattutto nei piccoli e medi uffici; poi, ci si è resi conto che nella gran parte dei casi l’imputato veniva a conoscenza del processo solo con la richiesta di rinvio a giudizio e si è introdotto l’obbligo di inviare un apposito avviso e a prevedere per l’imputato specifiche possibilità di prova; ancora, ci si è detto, non è giusto che solo il Pm possa fare indagini, e sono state introdotte le indagini difensive (miseramente fallite, anche per i costi e i rischi di finire sotto processo che ne potevano derivare al difensore); infine, si è capito che per invogliare l’imputato a chiedere il giudizio abbreviato era necessario che le indagini fossero complete. In sostanza, dopo un tortuoso cammino ventennale, si è ritornati alla vecchia istruttoria del Pm del codice Rocco, ma senza la presenza del giudice istruttore che, comunque, costituiva una garanzia e un argine allo strapotere del Pm.

Il sistema somiglia al vestito di Arlecchino e ha perso la sua fisionomia originaria. In più, è inefficiente e estremamente costoso per il numero di personale impiegato e di mezzi necessari per la gestione del singolo processo. Non siamo neanche la Germania con le sue disponibilità economiche ed è un continuo arrancare. Non ci sono soldi per pagare gli interpreti, i traduttori, i periti e gli avvocati d’ufficio. Eppure, come un pesce rosso nella boccia il legiferante si ostina a sbattere contro il vetro introducendo nuove riforme.

(1 – continua)

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