Scappare in Svizzera?

novik giustizia svizzera codice

di Adet Toni Novik

“Se mi accusano d’aver rubato la Madonnina del Duomo, per prima cosa scappo in Svizzera”. È una frase risalente nel tempo, a volte, vigente il codice Rocco, attribuita a Gaetano Salvemini, altre a Francesco Carnelutti (ma se ne trovano precedenti anche nel lessico popolare). Quale ne sia l’origine, esprime appieno il rapporto del cittadino di fronte alla giustizia penale. Paura e diffidenza.

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Adet Toni Novik

La presunzione di non colpevolezza traballa di fronte alla violenza connessa all’uso della legge penale. Essere riconosciuti innocenti dopo anni di detenzione è dura da sopportare. A distanza di 30 anni dall’entrata in vigore del “nuovo” codice di procedura penale a che punto siamo? Forse siamo messi peggio, certamente non meglio. I compilatori del codice si sono ispirati al modello accusatorio nord-americano –che già secondo gli studiosi comparatisti, non si capisce come faccia a funzionare-, adattandolo alle esigenze nostrane. Creando un Frankenstein. L’idea di fondo era semplice (o semplicistica?): il pubblico ministero compie rapidamente le indagini, acquisisce gli elementi probatori minimi da sottoporre al giudice (Gip), il quale valuta se si deve fare il processo o no. Nel corso delle indagini, il Gip autorizza gli atti più invasivi.

Le cose sono andate diversamente. Lungo la strada, sotto spinte eterogenee lunghe da analizzare, le indagini  sono diventate complesse e complete. Il pubblico ministero è diventato muscolare, e sovrasta ogni altro protagonista del processo. Sceglie per quali reati  procedere e chi indagare, formula l’imputazione (e se ne sono viste di fantasiose!), valuta se richiedere una misura cautelare, se archiviare o richiedere il giudizio. Il controllo del Gip, nei limiti in cui può essere effettuato, è debole. Intendiamoci, non è questione di persone -conosco pubblici ministeri e Gip validissimi, che svolgono con scrupolo il loro compito-, ma di sistema giudiziario.  Il cittadino deve avere fiducia nel complesso delle regole che tutelano le libertà, e non nei singoli che le applicano.  È stato un grave errore rendere difficile il passaggio di funzioni nello stesso distretto da inquirente a giudicante e viceversa. Il giudice che diventava pubblico ministero portava con sé la conoscenza dei meccanismi del processo e il culto dei diritti; il pubblico ministero che diventava giudice dismetteva il ruolo dell’accusatore e diventava super partes.

Cosa fare? Nel codice Rocco, c’era il giudice istruttore. Non è vero che fosse “appiattito” sul pubblico ministero: tra i due organi, anzi, il contrasto era fisiologico. Se il giudice istruttore non condivideva l’operato del pubblico ministero, assumeva la conduzione dell’indagine, ed era vero giudice. Bisogna, a mio modo di vedere, ricreare questo giudice, che abbia gli strumenti e sappia per la sua autorità porsi nei confronti del pubblico ministero in posizione di parità: un giudice che non intervenga solo in segmenti dell’indagine, come fanno adesso il Gip e il tribunale del riesame, ma possa, nei casi più gravi, vagliarla sin dall’inizio, garantendo l’uguaglianza delle parti nel processo.

E poi, in caso di assoluzione bisogna prevedere indennizzi per chi è stato sottoposto al processo. Ci sono imputati assolti che si sono impoveriti per potersi difendere. La cosa certa è che così non si può andare avanti: se si è cittadini sottoposti a un processo non ci deve essere il dubbio se restare in Italia o scappare in Svizzera.

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