Alla radice del male

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di Adet Toni Novik

Dire che la lettura de “Il Sistema” scritto da Luca Palamara e Alessandro Sallusti mi abbia colpito è dire poco. Mi ha fatto male, come un pugno sul viso, e come a me a tanti altri colleghi e amici con cui abbiamo condiviso un percorso avente come unico obiettivo  il perseguimento di valori e orizzonti ideali di giustizia e equità. Non sono un chierichetto, o come dicono i francesi un enfant de choeur, ho sempre saputo di nomine che si muovevano in ottica correntizia, ma mai immaginavo questo mercato delle vacche –senza offesa per gli onorati animali- che si teneva, non nelle sedi istituzionali, ma, come ho letto, nel chiuso di stanze di alberghi, o nei bar o sulle terrazze romane o durante cene organizzate da giudici in cui i commensali tutti altolocati –giudici, politici, futuri nominati- discutevano di chi doveva andare qui e chi là e, addirittura vedevano il controllato che brigava per scegliersi il suo controllore. Ho letto, e me ne sono vergognato per loro, i messaggi che si scambiavano, le autopromozioni, i veleni contro i contendenti, l’uso degli anonimi per “mascariare” gli avversari. Mio Dio come siamo caduti in basso, verrebbe da dire parafrasando Comencini. Non eravamo quelli che volevano dare lezioni di onestà a tutti, rivoltare l’Italia come un calzino? Perché e come è potuto succedere?

Per capire qualcosa, dobbiamo partire da lontano, dal dopoguerra. La magistratura non ha ancora superato il fascismo. I capi degli uffici e la Corte di Cassazione sono rimasti al loro posto e sono ancora permeati della ideologia precedente. L’opinione ancora dominante è che alle posizioni di vertice sia indissolubilmente connesso uno status superiore rispetto a quello del magistrato che esercita funzioni giudiziarie. I giudici di grado inferiore sono dei subordinati. Sono i vertici che decidono se un magistrato deve andare avanti o no, se deve avere l’aumento di stipendio o no: in un contesto storico ed economico in cui gli stipendi sono talmente bassi che è difficile arrivare a fine mese, un aumento significa migliorare un tenore di vita già basso di suo. L’avanzamento in carriera avviene per titoli e esami. Occorre scrivere sentenze complesse e dotti articoli di dottrina, e per questo serve tempo. Tempo sottratto al lavoro giudiziario. È privilegiato chi lavora in sedi non gravose. Soprattutto occorre essere allineati al pensiero dominante: la Cassazione. Di qui, un sistema fortemente gerarchico e con un’organizzazione di tipo piramidale, dove i meriti non si conquistano sul campo, ma in base a selezioni esterne destinate a privilegiare, nella migliore delle ipotesi, la “bravura in sé” del magistrato, che deve essere ossequioso, rispettoso della gerarchia e affidabile nelle decisioni, a scapito della sua effettiva capacità di rendere ai cittadini un “servizio giustizia” efficiente ed efficace. La necessità di poter studiare, il desiderio di non essere invisi alle alte sfere, dalle quali dipendeva il superamento del concorso e, quindi, il trattamento economico, inducevano al conformismo e consolidavano il sistema della gerarchia interna.

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Adet Toni Novik

Una magistratura così strutturata non è in linea con la Costituzione che vuole che i magistrati si distinguano solo per le funzioni esercitate. Ecco che tra il 1966 e il 1973 le cose cambiano: vengono aboliti i titoli e i concorsi, e la progressione in carriera (e stipendiale) avviene a ruoli aperti, sulla base dell’anzianità senza demerito. La scossa è salutare. Sottratto alle ansie del giudizio professionale e alle aspettative di carriera possibili solo grazie alla benevolenza dei superiori, il magistrato è al riparo da qualsiasi forma di pressione interna. L’automatismo in carriera ha un altro effetto: l’anzianità senza demerito è la chiave di volta per accedere alla dirigenza di un ufficio. Il magistrato che per anni ha ben operato, senza riportare provvedimenti disciplinari è certamente in grado di dirigere un ufficio. Per cui, tra più contendenti allo stesso ufficio prevale il più anziano. Non sempre è vero, perché può non aver demeritato anche il magistrato che, senza mai impegnarsi, è riuscito a sottrarsi alle responsabilità connesse al lavoro giudiziario, ma almeno ha una sua obiettività. Ognuno deve aspettare il suo turno, lavorando bene. Senza più il vincolo della gerarchia e del timore che incuteva, la magistratura diventa baluardo di giustizia: nel campo del lavoro, della lotta all’inquinamento, all’abusivismo edilizio. Si scoprono i grandi scandali petroliferi e i finanziamenti occulti ai partiti, la P2 di Gelli, il periodo stragista. I pretori d’assalto vigilano sul bene pubblico. Tangentopoli decapita una intera classe dirigente.

Non si può trascurare, però, che gli automatismi di carriera, accanto a queste ricadute virtuose, determinano anche un non isolato “lassismo”, dovuto alla scarsa rilevanza del merito per la carriera, nonché alla difficoltà di controlli incisivi sulla laboriosità e diligenza nello svolgimento del lavoro giudiziario. Salvo rare eccezioni, nei rapporti dei capi degli uffici i magistrati sono todos caballeros. Serve una nuova normalizzazione su basi diverse.

I tentativi di riforma iniziarono nel 2002 e si conclusero nel 2005-2006 con le riforme Castelli -Mastella.

Inutile, in questa sede, prendere in esame tutte le caratteristiche del sistema. È sufficiente ricordare che le valutazioni diventano basate sui parametri della capacità, della laboriosità, della diligenza e dell’impegno e sono affidate al circuito rappresentato dai dirigenti degli uffici, dai Consigli giudiziari, dal Consiglio superiore della magistratura. L’intento della riforma è quello di favorire una crescita di qualificazione professionale e culturale dell’intera categoria, incrinata da gravi scandali e cadute di professionalità (quante inchieste eclatanti finite nel nulla). L’anzianità, su cui prima si costruiva il percorso che portava alla dirigenza, viene di fatto abolita. Con la conseguenza che chiunque può aspirare a un posto semidirettivo o direttivo per 4 anni, rinnovabili fino a 8. I criteri di valutazione posti dalla legge (capacità, laboriosità, diligenza e impegno), proprio perché “valutativi”, sono elastici e manipolabili. Ricompare quello che è stato definito un “nuovo carrierismo giudiziario”, che stimola l’ambizione di accedere a funzioni giudiziarie di rilievo (le direzioni antimafia, l’anticorruzione),  la spasmodica ricerca dell’ufficio semidirettivo e direttivo, percepito in termini di prestigio personale più che di servizio, la rincorsa all’incarico fuori ruolo particolarmente prestigioso e ben retribuito (la Scuola della magistratura, i ministeri, le authority, la sirena della politica).

A questo si lega un diffuso sentimento di svalutazione del lavoro giudiziario quotidiano, reputato avvilente, poco gratificante, se non rilevante mediaticamente (“la grande inchiesta”) e fonte di rischi professionali. Nasce una corsa in avanti all’accumulo di incarichi, in cui il ritorno indietro, a fare il semplice giudice, non è tollerato. Si è assistito anche allo scambio di posti nella stessa sede: il procuratore della Repubblica che alla fine dell’incarico va ad occupare il posto di procuratore generale, e viceversa. Ma tutto questo è possibile solo se chi decide le nomine, chi sta al vertice, ti spalleggia. È necessario avere collegamenti con i signori delle tessere, cioè le correnti, le uniche che possono portare avanti il tuo nome. Nate per rappresentare le diverse aree culturali della magistratura, adesso sono diventate un Sistema di potere. Il libro di Palamara mette allo scoperto gli scontri tra le correnti e gli accordi spartitori per le nomine apicali di procure e tribunali. Per i posti più importanti, l’autorelazione che ogni magistrato che concorre ad un incarico è tenuto a produrre, in cui è descritto il percorso professionale, le capacità, il merito, non viene nemmeno letta. Tutto viene contrattato, anche il semplice trasferimento di sede. L’appartenenza prevale: chi si appoggia alla corrente è privilegiato rispetto ai peones –per fortuna la maggior parte dei magistrati- che ne sono fuori. Le correnti, e per esse i loro capi, aumentano il potere nella misura in cui riescono a soddisfare le richieste degli adepti, creandosi così un circuito che si autoalimenta. Potere che poi i capicorrente girano a proprio vantaggio creando collegamenti con gli altri poteri dello Stato. Il nominato a sua volta sarà riconoscente verso chi lo ha sostenuto. Riconoscente fino a che punto? Qualcosa si comincia a intravedere.

La politica, dal canto suo, non rimane a guardare. Se da un lato censura la degenerazione del sistema delle correnti, dall’altro si dimostra pronta a coltivare a proprio vantaggio le aspirazioni dei giudici a salire velocemente i gradini di una scala che, non dovrebbe più esistere, seppellita dalla Costituzione sotto parole lapidarie: «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni» (art. 107, comma 3, Cost.). L’interesse, come si legge nel libro, si dirige verso le procure perché questi uffici controllano l’indagine, decidono se deve nascere e come si deve svolgere. Le procure oggi sono il vero centro del Potere Giudiziario.

Ma, con tutto quello che si può e si deve contestare al metodo Palamara, mi ha colpito una cosa che ha anche ripetuto in qualche intervista: chi può dire che, se il trojan fosse stato inoculato in qualsiasi altro telefono dei signori delle tessere, il risultato sarebbe stato diverso? E questo la dice lunga sull’opera di ricostruzione che deve essere svolta all’interno della magistratura: abbattendo innanzitutto il mito della carriera, come fuga dal lavoro giudiziario, rivalutando il merito che ciascuno si è conquistato “sul campo” e non in altre stanze, merito da considerare non solo come quantità, ma come bontà del lavoro svolto, avendo come obiettivo un dirigente che non si limiti ad occupare la poltrona per prestigio personale, ma si ponga come punto di riferimento culturale e giuridico dell’intero ufficio, un primo tra pari, a disposizione di tutti per aiutare la crescita professionale, e infine coinvolgendo nel ruolo di controllo dell’operato del giudice anche l’Avvocatura, unica in grado di conoscere il valore umano e professionale di ogni magistrato perché lo sperimenta sulla propria pelle.

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