Strage di Samarate, le motivazioni dell’ergastolo a Maja. «Non si è mai pentito»

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SAMARATE Alessandro Maja agì “in un contesto subdolo uccidendo la moglie Stefania Pivetta e la figlia Giulia e riducendo in fin di vita il figlio Nicolò (unico sopravvissuto alla strage) colpendoli nel sonno di notte”. Il 58enne nella notte tra il 3 e il 4 maggio 2022 massacrò la famiglia (tra le 4 e le 5 del mattino) uccidendo la moglie e la figlia a martellate (usò una mazzetta, la moglie fu poi sgozzata con un coltello da cucina) e ferendo in modo gravissimo il figlio maggiore Nicolò, ridotto per molti mesi in sedia a rotelle. Gli omicidi furono commessi nella casa di famiglia in via Torino a Samarate. Anche il fatto di aver agito tra le mura domestiche è considerato particolarmente esecrabile dalla Corte d’Assise dl Tribunale di Busto, presieduta da Giuseppe Fazio (che ha firmato anche le motivazioni), che lo scorso 21 luglio ha condannato Maja all’ergastolo in primo grado.

Voleva uccidere tutti

E’ quanto si legge nelle 32 pagine di motivazione alla sentenza di fine pena mai pronunciata nei confronti del geometra che si spacciava per architetto. Per i giudici non vi è “dubbio che Maja volesse eliminare tutta la sua famiglia e forse anche se stesso“. Pacifica per Corte la capacità di intendere e di volere dell’imputato al momento dei fatti così come il fatto che l’uomo non si sia mai mostrato un reale pentimento per quanto fatto. L’uomo avrebbe agito convinto di dover affrontare presunti problemi economici che nella sua mente avrebbe ingigantito.

La rabbia verso la moglie

La sua rabbia sarebbe stata rivolta in modo particolare nei confronti della moglie che “da una decina di anni gli avrebbe rifiutato rapporti sessuali” e che oltre 30 anni prima, a detta dell’imputato, l’avrebbe “tradito con un macellaio” dopo che lui le aveva regalato un’auto. Sempre Maja, in aula, aveva accusato la moglie di spendere somme di denaro per lui elevate in frivolezze e di aver investito dei soldi in attività imprenditoriali che non si erano poi rivelate, sempre a parere del 58enne, abbastanza remunerative.

Nessun risarcimento a Nicolò

E ancora “pur disponendo di beni immobili e di liquidità consistente, come affermato dall’amministratore di sostegno, Maja non ha mai offerto alcun risarcimento a sostegno delle lunghe e costose cure che il figlio ha affrontato e ancora dovrà affrontare”, si legge nella sentenza. Al contrario il contributo di 5mila euro versato una tantum appare agli occhi della Corte d’Assise “irrisorio se non addirittura canzonatorio”, scrive il giudice estensore. I difensori aveva già annunciato l’intenzione di fare ricorso in Appello. Stefano Bettinelli, avvocato di parte civile, aveva giudicato la sentenza di primo grado congrua anche sotto il profilo risarcitorio.

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