Il San Raffaele e la lotta al coronavirus: farmaci anti-infiammatori e riabilitazione

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MILANO – Due interessanti studi dell’ospedale San Raffaele di Milano dimostrano tutta la capacità di intervento e di ricerca dei medici e docenti italiani che stanno danno un contributo importante nella lotta in prima linea al Coronavirus e allo stesso tempo stanno analizzando alcuni aspetti importanti delle conseguenze della patologia per aiutare chi ne è stato colpito a tornare alla normalità.

Il primo è uno studio comparativo che dimostra la superiorità terapeutica di anakinra rispetto a tocilizumab e suggerisce l’importanza del trattamento precoce. Il secondo evidenzia che i pazienti più gravi intubati e sedati sono, al contrario di quello che si potrebbe pensare, meno colpiti da problemi cognitivi e di memoria.

Iniziamo dai farmici. Spegnere la tempesta di citochine infiammatorie che colpisce i pazienti con forme gravi di Covid-19 è possibile, basta colpire la citochina giusta. Lo dimostrano i risultati di una ricerca clinica appena pubblicata su Lancet Rheumatology, coordinata da Lorenzo Dagna – primario dell’Unità di Immunologia, Reumatologia, Allergologia e Malattie Rare e professore associato dell’Università Vita-Salute San Raffaele – e da Giulio Cavalli, medico ricercatore della stessa unità. L’analisi statistica dei dati è stata possibile anche grazie alla collaborazione con i ricercatori dell’Istituto di ricerca urologica (Uri) del San Raffaele.

Il confronto

Lo studio mette a confronto, per la prima volta, l’efficacia di due diversi tipi di anti-infiammatori in una coorte di pazienti con forme gravi di Covid-19: l’inibitore dell’Interleuchina IL-1, chiamato anakinra, e gli inibitori di IL-6 tocilizumab e sarilumab. Secondo i risultati, a differenza di questi ultimi, solo anakinra ha prodotto una riduzione sostanziale della mortalità: la citochina da colpire è proprio IL-1. Lo studio dimostra anche la necessità di intervenire in modo tempestivo, dal momento che i pazienti trattati prima (quando gli indicatori dello stato infiammatorio erano più bassi) sono anche quelli che hanno avuto la prognosi migliore. “I tassi di mortalità del Covid-19 sono in buona parte associati all’emergere, nei pazienti con forme gravi della malattia, della cosiddetta sindrome da tempesta citochinica, uno stato iper-infiammatorio caratterizzato da una risposta immune eccessiva e dannosa – spiega Dagna -. Fin dall’inizio si è ipotizzato che le citochine più coinvolte nel processo infiammatorio fossero IL-1 e IL-6. I primi tentativi di trattamento si erano concentrati sull’inibizione di IL-6, soprattutto attraverso la somministrazione di tocilizumab”.

Il gruppo coordinato da Lorenzo Dagna è stato tra i primi a tentare nuove strade terapeutiche dopo aver osservato la scarsa efficacia di quest’ultimo: proprio il San Raffaele è stato il primo istituto al mondo che ha testato l’efficacia di anakinra, un farmaco utilizzato abitualmente per l’artrite reumatoide e altre gravi patologie infiammatorie. L’intuizione è frutto di una expertise unica al mondo nel campo delle terapie che interferiscono con IL-1.

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A sinistra il professor Lorenzo Dagna

“Il fatto che IL-1 sia un target terapeutico vincente è probabilmente dovuto al fatto che questa molecola precede il rilascio di IL-6. Ciò significa che con anakinra interveniamo, in modo mirato, a monte della cascata dei segnali infiammatori – sottolinea Giulio Cavalli, primo autore dello studio -. I dati del nostro studio, il primo a comparare tra loro i due trattamenti, per altro in un contesto complesso come quello pandemico, mettono ulteriore chiarezza sull’efficacia di questo approccio”. La ricerca dimostra inoltre l’importanza di
intervenire in fase precoce, quando i danni indotti dalla malattia sono ancora contenuti.

“L’obiettivo della ricerca clinica su Covid-19 è andare, sempre di più, verso una personalizzazione delle terapie: non solo rispetto alle diverse categorie di pazienti, ma anche alle diverse fasi di malattia – conclude il professor Dagna -. Anakinra costituisce, se somministrato al momento giusto e ai pazienti giusti, un ulteriore strumento per evitare le progressioni più pericolose dell’infezione da SARS-CoV-2. Stiamo in questi giorni avviando uno studio randomizzato internazionale che ancor meglio sostanzierà l’efficacia e la sicurezza di questa molecola nei pazienti con Covid-19”.

Gli aspetti cognitivi e di memoria

Altro studio dell’ospedale evidenzia che i pazienti più gravi intubati e sedati sono meno colpiti da problemi cognitivi e di memoria
Un altro studio pubblicato sulla rivista PLOS ONE mostra l’impatto del Covid-19 sulle funzioni cognitive nei pazienti degenti presso l’Unità di Riabilitazione. I pazienti erano stati ricoverati precedentemente in Terapia Intensiva e nei reparti di Medicina Covid-19 o Malattie infettive dello stesso Istituto. A condurre la ricerca è la dottoressa Federica Alemanno, Responsabile del Servizio di Neuropsicologia, con il coordinamento del dottor Sandro Iannaccone, primario dell’Unità di Riabilitazione Disturbi Neurologici Cognitivi-Motori. Lo studio ha identificato nell’80% dei casi la presenza di disturbi cognitivi (memoria, attenzione, orientamento) e nel 40% di depressione. Sorprendentemente i pazienti che nella fase acuta dell’infezione erano stati intubati e sedati risultano essere meno colpiti da problemi cognitivi e di memoria rispetto a coloro che erano stati ricoverati con il supporto solamente di una ventilazione non invasiva (ad es. casco CPAP) ed erano pertanto rimasti coscienti.

Il follow-up a un mese dalla dimissione ospedaliera e a circa tre mesi dall’esordio della malattia ha evidenziato inoltre che la maggior parte dei pazienti presenta ancora deficit cognitivi. “I nostri dati mostrano in modo certo la necessità di un intervento neuropsicologico riabilitativo precoce, quando ancora il paziente è positivo al Covid-19 ma non più in fase acuta. Ecco perché già durante i primi mesi della pandemia, il San Raffaele è stato tra i primi ospedali al mondo ad attivare un reparto di riabilitazione per i pazienti Covid-19 ancora infettivi, con lo scopo di recuperare le funzioni neurologiche – oltre che quelle motorie e respiratorie – perse durante la fase acuta della malattia nel più breve tempo possibile”, rimarcano Iannaccone e Alemanno.

Circa il 20% dei pazienti ricoverati per Covid-19 al San Raffaele – tra Terapia Intensiva, Medicina Covid-19 e Malattie Infettive – ha avuto poi bisogno di essere assistito presso l’Unità di Riabilitazione Covid-19 dell’Ospedale. Si sta parlando, nel caso della prima ondata della pandemia, di circa 140 pazienti. Lo studio pubblicato su PLOS ONE ne ha coinvolti 87, selezionati nella fase sub-acuta della malattia (circa dieci giorni dopo la comparsa dei sintomi e ancora infettivi) e con un’età media di 67 anni. Per l’analisi dei dati, i pazienti sono stati separati in quattro diversi gruppi in base al tipo di assistenza respiratoria di cui hanno beneficiato nella fase acuta della malattia: dai pazienti più critici (intubati e ricoverati nell’Unità di Terapia Intensiva) a quelli meno critici, che non avevano ricevuto nessuna ossigenoterapia.
Degli 87 pazienti, l’80% aveva deficit neuropsicologici e il 40% mostrava una depressione lieve-moderata. I pazienti che avevano beneficiato della ventilazione non invasiva avevano uno stato cognitivo maggiormente compromesso (memoria, attenzione, orientamento, funzioni visuo-spaziali) rispetto a chi, invece, era stato sottoposto a sedazione e intubato. Al follow-up di un mese, oltre il 40% dei pazienti presentava comunque segni di disturbo da stress post-traumatico.

“La relativa riduzione dei disturbi cognitivi nei pazienti sedati e intubati suggerisce che una delle cause del disturbo cognitivo possa essere rappresentata dal vissuto in fase cosciente di tutto il percorso ospedaliero della malattia. Lo stress emotivo prolungato, i cambiamenti di ambiente connessi all’ospedalizzazione, il distacco dai familiari e l’età avanzata sembrano essere fattori rilevanti che influenzano negativamente lo stato cognitivo dei pazienti”, osserva Federica Alemanno, primo autore dello studio.
“A distanza del picco di emergenza della prima ondata, oggi possiamo affermare con certezza l’importanza di un approccio neuropsicologico diagnostico e terapeutico precoce nei pazienti Covid-19 ospedalizzati. I risultati del nostro studio mostrano per la prima volta quanto frequentemente si possano osservare deficit cognitivi, a breve e a lungo termine, nei pazienti ricoverati e di come possano essere influenzati dai tipi di assistenza respiratoria, soprattutto nei pazienti anziani”, spiegano ancora Alemanno e Iannaccone.
“Poiché un numero elevato di pazienti mostrava ancora disturbi cognitivi e sintomatologia depressiva a un mese di follow-up, alle riflessioni sull’importanza di una diagnosi neuropsicologica e di training cognitivo precoci, si aggiunge anche un dato ulteriore sia sulla complessità della sintomatologia ‘Long-Covid’ che sulla conseguente necessità di supporto psicologico e di training cognitivo anche a lungo termine nel post-ricovero, possibilmente attraverso l’uso di nuove tecnologie, come la telemedicina”, conclude la dottoressa Alemanno.

Angela Bruno

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