VISTO & RIVISTO Ritratto intimo e poetico delle nostre fragilità

di Andrea Minchella

VISTO

LA MIA VITA CON JOHN F. DONOVAN, di Xavier Dolan (The Death and Life of John F. Donovan, Canada 2018, 127 min.).
Xavier Dolan è tornato. E questa volta decide di fare le cose in grande. Realizza questo difficile e complesso film in terra americana, sdoganando i temi a lui più cari in un ambizioso progetto inglese che vede come protagonista un cast composto da star mondiali del calibro di Natalie Portman, Susan Sarandon e Kathy Bates.

Dolan decide di raccontare il “doppio”. Decide di accendere un riflettore sulla vita privata e su quella pubblica che faticano, spesso, a coesistere. Dolan decide di tratteggiare, con inquadrature spesso ravvicinatissime, l’inconscio di ognuno di noi, che spesso direziona le nostre scelte e i nostri desideri, senza che ce ne accorgiamo. Dolan confeziona il suo settimo film (è già uscito anche il suo ottavo, “Matthias & Maxime”) mettendo al centro due vite, quella di Donovan e quella di Turner, che si rincorrono ma non riescono ad incontrarsi mai. Sono, probabilmente, due vite della stessa persona. Sono, forse, due fasi della stessa vita. Sono, in fondo, la contraddizione più stringente che emerge nel difficile passaggio dall’età dell’infanzia a quella più adulta, in cui la fredda e spietata verità di come siamo non può più essere nascosta. Donovan infatti, da adulto, perde tutta la magia e la fortuna, dice lui, che il piccolo Turner invece può ancora trovare nella sua candida e spensierata esperienza di vita. Una vita, quella del bambino che scrive di nascosto lettere profonde al suo idolo John, in cui è assordante l’assenza del padre, come anche nella giovane vita di Donovan, mentre è ossessivamente presente la figura della madre, interpretata da una convincente Portman.

In questa squilibrata formula famigliare, che accomuna molto le due vite fragili e poetiche, prendono vita i desideri e i sogni dei due protagonisti: mentre Turner ha la possibilità di modellare il suo percorso, Donovan scopre, oltre al successo, la difficile consapevolezza della diversità, e della impossibilità di “inquinare” la vita pubblica con le dolorose ma sincere scelte fatte nella vita privata. E così Donovan vive sulla sua pelle uno snervante corto circuito che lo catapulta in una dimensione asfissiante, in cui anche i suoi rapporti familiari vengono messi pesantemente in discussione.

Dolan costruisce un imponente palco in cui, però, spesso ci si perde in una sceneggiatura che non sempre è all’altezza del desiderio del regista di tratteggiare, con una padronanza ormai strutturata, caratteri apparentemente superficiali, ma che invece nascondono una profondità sorprendente. Anche lo stesso personaggio di John F. Donovan risulta, in certi passaggi, artificiosamente costruito, a scapito della semplicità con cui Dolan è sempre riuscito a descrivere le vicende al centro dei suoi film.

Cercando di ricostruire la tensione massacrante del suo magnifico “è solo la fine del mondo”, il regista canadese non risparmia inquadrature dritte negli occhi dei suoi personaggi, ma il risultato finale non è paragonabile al riuscito dramma in cui Cassel riesce a dar vita ad uno dei suoi migliori personaggi, dall’epoca del geniale Vinz de “l’odio”.

Anche le lucide e concrete capacità della Sarandon e della Bates, che interpretano la madre e la manager di Donovan, non riescono a fornire il giusto ritmo ad un racconto che a volte cede il passo a una inaspettata lentezza narrativa. Dolan, comunque, continua in maniera quasi ossessiva a confezionare film che si sviluppano, spesso in maniera riuscita e preziosamente poetica, attorno a temi che sono alla base di ogni vita, e che andrebbero affrontati per cercare di capire meglio la nostra persona e le relazioni che da essa prendono vita per intrecciarsi con il resto del mondo.

RIVISTO

SOMEWHERE, di Sofia Coppola (Stati Uniti 2010, 98 min.).
Dopo “Marie Antoinette” il mondo intero aspettava con ansia il nuovo film di Sofia Coppola. Quando arrivò “Somewhere” nelle sale, molti ne rimasero delusi. Non si era pronti, probabilmente, ad un passo così intimista della giovane regista americana. Questo caldo e lento racconto è un vero atto d’amore verso il padre, verso la figura che l’ha generata e che ha segnato indelebilmente la sua vita. Questa è l’esperienza di Sofia Coppola che, quindi, decide di raccontarla in un pacato e silenzioso viaggio nel mondo dello” showbusinness” in cui l’audace regista, sin da piccola, è stata costretta a vivere la sua breve e fragile vita, per via dell’ingombrante figura paterna.

Un film, questo, che cerca in maniera sincera e cinica di raccontare le vere dinamiche che si celano dietro le finte e deformate vite di alcune “stars” che brulicano in una sempre più irriconoscibile Hollywood. Il racconto si snoda attorno all’incontro tra un uomo, un attore distratto e solo, e sua figlia, poeticamente ed inaspettatamente indulgente nei confronti di un padre alienato e clinicamente egocentrico. L’uomo sembra sommerso da una vita difficile e da una serie di simboli profondamente svuotati di qualsiasi calore umano.

I due vivono nel famoso Chateau Marmont di Los Angeles e girano in Ferrari, rigorosamente nera. Un piccolo capolavoro che molti non hanno apprezzato ma che andrebbe rivisto per assistere ad un originale e sincero racconto, oltre che di una Hollywood lontana dalla proiezione finta che ci viene spesso fornita, anche di un rapporto intimo tra un padre assente ed una figlia affettuosamente comprensiva.

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