VISTO&RIVISTO Babylon, una parziale delusione

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di Andrea Minchella

VISTO

BABYLON, di Damien Chazelle (Stati Uniti 2022, 189 min.).

C’è un nuovo Baz Luhrmann in città. O quasi. Damien Chazelle, classe 1985, si è ritagliato un posto d’onore nella mecca del cinema, nella Hollywood tanto diversa e gigantesca rispetto a quella degli albori. E come tutti i grandi, anche lui ha deciso di raccontare una storia il cui fulcro sia proprio quell’industria che lo ha reso famoso: il cinema. E così, dopo aver stregato il mondo intero con il duro “Whiplash”, il passionale “La La Land” e con il silenzioso “The First Man”, il regista nato a Providence scrive e dirige un chiassoso, sfacciato, scorretto e molto caotico “Babylon” che vuole focalizzare l’attenzione maniacale del regista sull’esatto momento in cui il cinema si è trasformato da insignificante intrattenimento alla grande industria che ha cambiato per sempre i costumi della società moderna e contemporanea.

Chazelle vuole sottolineare, prendendo spunto dalla grande rivoluzione del sonoro degli anni venti che trasformò per sempre il modo di guardare un film, come i grandi cambiamenti mietano sempre numerose vittime, che siano consapevoli o meno del loro ruolo essenziale ricoperto per rendere un’evoluzione tecnologica come uno sconvolgimento totale che cambia definitivamente il comportamento di una società.

“Babylon”, già dalla prima sequenza, è caratterizzato dal “troppo” e dall’”esagerato”, che insieme danno la misura di quello che seguirà. La Hollywood degli anni venti è ripiegata su sé stessa e sembra conoscere una crisi senza soluzioni. Il sospetto che non ci sia più nulla da raccontare serpeggia tra gli Studios che faticano a trovare nuove idee da realizzare. Le grandi star del cinema muto appaiono sbiadite e bidimensionali se paragonate al fiorente ed innovativo cinema d’oltre oceano. In questo contesto desolante in cui le feste mondane si caricano di eccesso e di sballo di qualsiasi tipo, Chazelle decide di raccontare la storia di tre personaggi che attraversano il momento storico più complicato dell’industria del cinema. Jack Conrad, una sorta di Clark Gable “ante litteram” interpretato da uno stanco ma sempre centrato Brad Pitt, Nellie LaRoy, una ragazza problematica interpretata da una bravissima Margot Robbie che viene catapultata senza protezioni nelle fauci del cinema muto di quegli anni, e Manny, un ragazzo spagnolo che sognando, prima o poi, di prendere parte a “qualcosa di grande” si muove vorticosamente da uno studio ad un attore proponendosi come “factotum” in grado di risolvere qualsiasi problema. Le vite dei tre protagonisti si sforano, si intrecciano ma non riescono a salvarsi dall’imminente crisi globale che avrebbe travolto il cinema così come si conosceva fino a quel momento.

Chazelle ricostruisce fedelmente l’ambiente e l’atmosfera che si respirava in quegli anni nelle feste che si susseguivano presso le sontuose ville dei ricchi che finanziavano i film. Tutta la sequenza iniziale della festa a Bel Air è un omaggio schizofrenico al “Moulin Rouge” di Baz Luhrmann. La musica incessante e litanica del bravissimo Justin Hurwitz conferisce all’intero progetto una tridimensionalità tipica dei lavori di Chazelle. Ma la strada per diventare una leggenda è ancora lunga. Tre ore di film rischiano, come in questo caso, di far crollare la struttura che per le prime due ore riesce a rimanere in piedi.

Il caos stilistico e narrativo della prima parte, seppur con qualche sbavatura, riesce a sincronizzare quasi perfettamente la storia con le emozioni dello spettatore. Ma dopo la seconda ora la vicenda si infila in un limbo vischioso di noia e di stanchezza che mina l’intero progetto. Sembra che la bulimia artistica di Chazelle questa volta non sia stata correttamente dosata con il conseguente sfilacciamento della pellicola nella terza ora del racconto. Peccato.

“Babylon” ha il pregio di raccontarci la mutazione del cinema e del suo linguaggio e di come i suoi protagonisti diventano, loro malgrado, immortali per le generazioni che si susseguiranno. Ma ha il difetto di durare troppo solo per una sorta di autoreferenzialità piuttosto che per una genuina e sacrosanta necessità narrativa o descrittiva del regista.

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RIVISTO

AVE, CESARE!, di Joel ed Ethan Coen (Hail, Caesar!, Stati Uniti- Regno Unito 2016, 106 min.).

Poco conosciuto, questo film dei fratelli Cohen è un interessante affresco della Hollywood degli anni cinquanta e di come il cinema americano stava diventando una potente arma di invasione culturale del mondo. Un George Clooney epico in un bel film che parla di cinema. Da rivedere.

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