VISTO&RIVISTO La memoria come analgesico per il presente

minchella judy visto rivisto

di Andrea Minchella

VISTO

JUDY, di Rupert Goold (Regno Unito 2019, 118 min.).

Un oscar agli occhi. Uno allo sguardo ed uno al dolore. Questi sono i premi che Renée Zellweger dovrebbe vincere per la sua interpretazione di Judy Garland nel potente e sussurato “Judy” di Rupert Goold. Il regista decide di scommettere tutto sull’interpretazione corporale e facciale che l’attrice statunitense riesce a creare per far rivivere la leggendaria attrice americana; la scommessa viene vinta. “Judy” infatti è un ritratto sincero e poetico di un’anima fragile, di una bambina mai cresciuta, di un’adulta la cui adolescenza è stata venduta all’industria del cinema, che ruota completamente attorno alla bravura quasi divina della Zellweger.

Judy Garland è diventata un’icona giovanissima per poi cadere nell’abisso del dolore e dell’oblio negli ultimi anni della sua vita. L’America, che l’aveva divinizzata sin da bambina grazie al rivoluzionario e magico “Il Mago di Oz”, la dimentica e se ne sbarazza nel giro di pochissimo. L’alcol e gli analgesici diventano i cardini della vita della giovane attrice in cerca di un’altra opportunità. Quando ormai la sua vita, già appesa ad un filo, sembra precipitare più in basso, dal vecchio continente, da sempre più sensibile ed attento verso i grandi artisti d’oltre oceano, arriva la possibilità tanto desiderata dalla Garland, ormai sbiadita e sfilacciata. La statura dell’artista risiede, però, nella potenza della sua voce che si riattiva perfettamente non appena si riaccendono le luci sul palco. E così i problemi pesanti e drammatici, ormai incancreniti sul viso duro e pesante della Garland, si cancellano per un attimo, dando spazio ad una voce angelica ed ad uno sguardo vivido e penetrante che squarcia violentemente lo schermo per arrivare direttamente, come una freccia infuocata, ai cuori del pubblico impreparato a tanta emozione.

La potenza della voce della Zellweger riesce completamente a trasformare la Bridget Jones di qualche anno fa nella iconica e mitografica attrice/cantante del secolo scorso.

Il racconto, tratto dall’opera teatrale di Peter Quilter, non si ferma un attimo e, anzi, corre nell’anima martoriata della bambina prodigio che ha a che fare con una famiglia disgregata, con dei figli a cui non può dare ciò che vorrebbe, e con delle dipendenze “terapeutiche” che le ricordano in ogni istante da dove arriva e quanto ha dovuto soffrire per diventare la grande icona che è diventata. La vita in cui il concetto di abbandono si ripete in un “loop” devastante e diabolico, è troppo breve per poter garantirsi una seconda possibilità. L’unica medicina che il corpo esile e assetato della Garland riesce ad assimilare sembra essere la sua memoria, schizofrenica e dilatata. La Garland/Zellwegwr, infatti, rivive, come in una sorta di litania, diversi momenti traumatici della sua giovane e complessa carriera da artista. Sembra quasi essere condannata ad un continuo ricordo delle privazioni e delle imposizioni a cui è stata costretta sin da bambina.

Il film è un discreto lavoro che però trova il suo punto forte nella completa e sincera interpretazione che la brava attrice statunitense calibra e rielabora in una performance unica ed estremamente toccante. Durante il racconto Renée Zellweger scompare dietro una Judy Garland incredibilmente sincera e profondamente reale. La pellicola sembra essere stata volutamente asciugata nei suoi caratteri stilistici proprio per risaltare in maniera assoluta la bravura oltre ogni previsione di una ritrovata e centrata Renée Zellweger, che canta con una voce potente e sporca come sporca era la voce della Garland delle ultime apparizioni.

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RIVISTO

LA VIE EN ROSE, diI Olivier Dahan (La Mome, Francia-Regno Unito-Rep. Ceca 2007, 140 min.).

Era doveroso un omaggio ad una voce ed ad una vita così complesse come furono quelle della grande Edith Piaf. E così nel 2007 il giovane Olivier Dahn decide di raccontare in maniera originale, e lontana dalla biografia ufficiale, una delle vite più travagliate e schizofreniche come fu quella della Piaf. Il progetto, che poteva restare anonimo per la scelta sbagliata della protagonista, divenne un vero successo grazie alla superba e fortemente sentita interpretazione di Marion Cotillard che riuscì a fissare nell’immaginazione di tutto il mondo la drammatica e troppo breve esistenza di una leggenda della musica mondiale. Anche se cantava in playback, la Cotillard, giustamente premiata con l’Oscar, riuscì perfettamente a regalarci il racconto vero e corporale di un’anima fragile che però aveva a disposizione una voce unica e dolorosamente evocativa da far ipnotizzare ogni spettatore che incontrava.

La poesia delle sue canzoni avvolgeva quel corpo minuto e sgraziato, dando vita ad una magia che soltanto pochi sono in grado di creare. E Marion Cotillard riesce perfettamente a trasmettere questa alchimia.

Un film da rivedere ed ascoltare per l’intensità delle canzoni e per la funzione evocativa di una vita difficile ed estremamente faticosa in relazione ad una leggera e spontanea capacità vocale unica ed inimitabile.

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