VISTO&RIVISTO L’immensità di un racconto sussurrato

minchella crialese immensità
Emanuele Crialese e Penelope Cruz alla Mostra del Cinema di Venezia

di Andrea Minchella

VISTO

L’IMMENSITA’, di Emanuele Crialese (Italia- Francia 2022, 97 min.).

Emanuele Crialese elabora il dramma della sua esperienza personale. E ce ne fa dono con questo capolavoro che ci travolge e ci segna indelebilmente nel profondo del nostro cuore.

“L’Immensità” è un’antologia preziosa che parla di corpi, di genere, di pubertà, di arte, di libertà, di paure e di desideri. Crialese scrive e dirige una riflessione puntuale e sincera sulla sensazione di non sentirsi a proprio agio nel corpo in cui ci troviamo violentemente catapultati dalla nascita, e sull’ossessiva e incompresa volontà di raggiungere la serenità che si intreccia, sovente, con la libertà di essere ciò che ci si sente di essere. Senza indugio Crialese cristallizza con estrema dolcezza e infinita poesia l’ambiente familiare in cui il suo dramma si è consumato. Quella famiglia borghese degli anni settanta, in cui la giovane Adriana del film cresce e scalpita per una nuova vita, è la famiglia in cui parecchi di noi sono cresciuti. L’Italia di quegli anni era ancora intrappolata tra il patriarcato più miope, le convenzioni cattoliche asfissianti e rigide, e la compagnia costante e litanica della televisione e dei suoi varietà.

Adriana, interpretata da una perfetta e sconosciuta Luana Giuliana, è una bambina che sente di non appartenere al corpo che la natura le ha donato. E al genere che la famiglia e la società decide di conferirle. Adriana si sente Andrea. Adriana è Andrea. E lo dichiara più o meno apertamente a tutti. Sua madre Clara, una gigantesca Penelope Cruz, sembra essere l’unica persona in grado di comprendere il suo disagio. Forse perché anche lei, a suo modo, non è incanalata nelle regole ferree e ipocrite che la società imponeva. Clara e i suoi figli Adriana, Diana e Gino, vivono una felicità schizofrenica fatta di momenti di socialità di facciata alternati con balli e canti sulle note di una travolgente Raffaella Carrà, spesso amalgama televisiva nelle loro giornate assolate, quando suo marito Felice è a lavoro. La loro spensieratezza viene costantemente aggredita durante le cene, tristi e silenziose, in cui la famiglia di Adriana si riunisce come in una funzione religiosa più che in un momento di gioia e di aggregazione. La tavola apparecchiata diventa per Adriana una sorta di banco degli imputati dove il giudizio del padre, distante e arido, riesce a disintegrare ogni tentativo di leggerezza e di calore.

Crialese riesce senza retorica a dipingere con una schiettezza che fa venire i brividi i momenti più difficili e traumatici che ogni famiglia, o quasi, è stata prima o poi costretta a vivere. In quel tipo di famiglia, come ci spiega Massimo Recalcati in parecchi dei suoi saggi, il padre spesso ricopriva un ruolo autoritario assoluto e decideva, senza spiegazioni né atti di testimonianza, cosa era giusto e cosa era sbagliato. Nella famiglia patriarcale non c’era spazio per confronti dialettici né per le diversità che non fossero contemplate nel perimetro degli stereotipi prevalentemente cristiani. Adriana riesce ad emanciparsi grazie al rapporto con la madre e a causa di tutto il dolore cui è stata sottoposta. La consapevolezza dell’Io, che non è una questione per cui esistono cure o insegnamenti o, peggio, leggi, avviene comunque perché deve avvenire. Il problema è, e questo è il cuore del racconto di Crialese, come e con quanto dolore avviene.

“L’Immensità” diventa epica primordiale della persona, dell’anima, del cuore e delle emozioni. Il corpo di Cristo diventa un’indigestione molesta. La punizione diventa una prova per crescere. L’acqua diventa una lingua sconosciuta a chi ci circonda. E poi, ancora, il labirinto diventa un luogo dell’anima dove Adriana cerca di trovare risposte impossibili da trovare. Crialese imbastisce una pellicola fragile e sussurrata in cui inserisce simboli e “miti” degni di una narrativa universale sentimentale. I grembiuli, neri per i maschi e bianchi per le femmine; il varietà del sabato sera con Celentano, la Carrà e Patty Pravo; le baraccopoli romane in cui vivevano gli operai e raggiungibili dopo aver attraversato un campo di canne; le antenne sui tetti come simbolo della trasformazione tecnologica e culturale dell’intrattenimento.

I primissimi piani di Crialese che mostrano i dettagli del viso della bellissima Penelope Cruz scandiscono la grammatica del regista romano che con questo racconto stigmatizza per sempre il senso della trasformazione e della crescita come passaggio obbligato della vita.

***

RIVISTO

C.R.A.Z.Y., di Jean-Marc Vallée (Canada 2005, 127 min.).

Un esplosivo racconto sulla libertà di essere e di vivere al di fuori delle convenzioni sociali. Un racconto leggero che colpisce però dritto al cuore dello spettatore. Una colonna sonora potente che diventa architrave dell’intera narrazione.

Il bravo Vallée, prematuramente scomparso, compone un “puzzle” articolato e coinvolgente su ciò che è la famiglia moderna, sottolineandone in maniera poetica i limiti ed i punti di forza. Da rivedere per conoscere un punto di vista inedito e romantico sulle trasformazioni costanti della società moderna.

minchella crialese immensità – MALPENSA24