VISTO&RIVISTO Una polaroid sbiadita dell’America degli anni Ottanta

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di Andrea Minchella

VISTO

ARMAGEDDON TIME- IL TEMPO DELL’APOCALISSE, di James Gray (Armageddon Time, Stati Uniti- Brasile 2022, 115 min.).

Anche James Gray si aggiunge alla lista, sempre più nutrita, di quegli autori che decidono di raccontarsi e di condividere le esperienze di vita che sono state determinanti per l’ingresso nel mondo dell’arte e del cinema. Forse spinti da un senso di malinconia di mezza età, forse privi di buone idee, i registi che decidono di realizzare film completamente o in parte autobiografici non sempre riescono a mantenere il buon livello di qualità che magari hanno raggiunto con i lavori precedenti. Questo è uno di quei casi perché “Armageddon Time” è un film i cui gli elementi che lo compongono sono, se presi singolarmente, raffinati e ben costruiti. Manca però il tocco di Gray che, seppur non ha mai trafitto il cuore o l’anima degli spettatori in maniera significativa, è riuscito comunque negli anni a regalarci storie e percorsi interessanti ed originali. In questo caso il regista americano ha saputo confezionare un racconto stilisticamente ed esteticamente quasi perfetto. La scenografia, la fotografia, la bravura di alcuni attori, la scelta della colonna sonora, sono elementi che vengono trattati con maniacale perfezione. La luce soffusa e sbiadita degli interni diventa un inchiostro permanente per una storia che si incastra nell’America degli anni ottanta, carica di paura e di speranze infrante.

Il piccolo Paul, una sorta di “io” intimo del regista, vive nel Queens in una famiglia borghese, più o meno, ebrea e molto sbiadita. Sua madre Esther, un’irriconoscibile Anne Hathaway, conduce un’esistenza tranquilla tra i due figli, la voglia di diventare rappresentante di scuola e un marito praticamente inesistente. Suo padre Irving, un poco convincente Jeremy Strong che sembra sempre più intrappolato nel personaggio di Kendall della serie “Succession”, è un idraulico che conduce una vita semplice ma piena di rancore e risentimento. Suo nonno, un gigantesco Anthony Hopkins, sembra essere l’unico che dimostra affetto e attenzione per il piccolo Paul.

Con lo sfondo di un’America perduta e che fatica a vivere un nuovo grande sogno, la famiglia dei Graff cerca di sopravvivere in una città che pare aver dimenticato i suoi abitanti. Solo la gita al museo di arte contemporanea che Paul fa con la sua classe sembra regalare un po’ di luce (e di speranza) al racconto sbiadito e ingrigito che Gray decide di confezionare. L’arte, per il piccolo Paul, diventa l’unica strada percorribile per emanciparsi da una famiglia che non ha mai osato né rischiato, rimanendo isolata sempre più in una quotidianità asfissiante e priva di veri momenti di felicità.

Gray ha buone intenzioni. Vuole renderci partecipi della sua infanzia e dei motivi che lo hanno spinto a voler diventare regista. Ma il racconto si perde spesso in momenti morti che annoiano più che stupire. La sceneggiatura, su cui molte sequenze si poggiano, è stata scritta ma non è stata, probabilmente, “sentita” dagli attori. Tranne Hopkins e il bravo Michael Bank Repeta, la recitazione del cast risulta manieristica e immotivatamente plastica. L’intento del regista si sgretola a favore di un racconto che troppo spesso si sbiadisce a tal punto da rendere difficile seguirne il senso intrinseco e intimo. Il tema della gratitudine, del razzismo, della crescita, sono toccati e trattati senza una vera prospettiva intimista. Assistiamo ad una sorta di carrellata di tematiche che si inanellano tra loro grazie ad una geometria stilistica asettica, facendo però perdere attimi di magia e di emozione preziosi e necessari per un racconto del genere.

“Armageddon Time”, che richiama il mantra politico di Roland Regan (che puntò la sua campagna elettorale di quegli anni sulla paura e la catastrofe imminente per gli Stati Uniti), rimane una bella storia da raccontare ma un film pieno di lacune che verrà presto dimenticato e riposto nella parte più sbiadita del nostro cuore.

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RIVISTO

GENTE COMUNE, di Robert Redford (Ordinary People, Stati Uniti 1980, 124 min.).

L’esordio alla regia del gigantesco Robert Redford. Un racconto potente ed estremamente realistico su una famiglia americana, sui difficili rapporti tra i suoi componenti, e sull’incapacità quasi endemica di elaborare il lutto da parte degli esseri umani.

Un affresco penetrante che non lascia scampo allo spettatore e che tratteggia una crisi profonda dell’istituzione della famiglia nella società contemporanea. Da rivedere.

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