Covid, il cappellano dell’ospedale di Gallarate a casa dopo sei mesi di calvario

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GALLARATE – Quattro mesi in ospedale e due in una clinica di riabilitazione. La lotta contro il Covid non è stata certo una passeggiata per don Gianluigi Peruggia, cappellano dell’ospedale di Gallarate, che di recente è tornato a casa dopo aver sconfitto il virus nella sua forma più aggressiva. Lo ha raccontato in un’intervista rilasciata a Chiesa di Milano, svelando tutti i particolari che lo hanno portato anche a soffrire di allucinazioni. Numerosi i risvolti, spesso complicati: dal sentimento di solitudine provato, alla quasi totale dipendenza da altre persone per le necessità più elementari. Ma anche la professionalità dei medici che l’hanno preso in cura. Senza dimenticare uno degli aspetti fondamentali, ovvero la grande fede, che gli ha permesso di uscire vincitore dalla malattia.

Le difficoltà della malattia

Dopo essere stato ricoverato, don Gianluigi ha affrontato tutti gli step del virus, compresi la terapia intensiva e il passaggio al reparto pneumologico semi-intensivo. Nel suo racconto, ammette che i ricordi siano annebbiati. Complici le allucinazioni che l’hanno spinto a vivere situazioni molto lontane dalla realtà. Pensieri che «erano un misto di speranza e di disorientamento», precisa. Nel corso della malattia, il parroco ha dovuto tenere testa a varie complicazioni, come shock settici e trombosi. Fino al ricorso alla peg (l’applicazione chirurgica di una sonda per somministrare la nutrizione) e alla ventilazione attraverso tracheostomia.
In questa situazione non sono mancati momenti di solitudine e rassegnazione, causata dalla dipendenza da altre persone per gesti semplici e quotidiani. Si è trovato nelle mani del personale sanitario, ma soprattutto sostenuto dalla fede. Qui ha trovato la forza di andare avanti, nel pensiero religioso che «veniva a tratti, come una traccia che mi permetteva di mantenere un rapporto con il mio essere cristiano e prete».

La riabilitazione e le persone vicine

Poi è arrivata la riabilitazione, con una serie di attività per recuperare l’uso dei muscoli compromessi. Un’occasione per socializzare un po’ di più, ma comunque sempre condizionato dalla situazione generale, dal ricovero. Essenziale, in questo periodo, l’aiuto di persone amiche, ammette il prete. Che ricorda come si siano occupate delle esigenze e dell’organizzazione per il rientro a casa. E proprio a casa continua il percorso di recupero, sostenuto anche da cure palliative nei momenti più difficili e – come avviene ancora – dal sostegno di una badante e delle persone più vicine. Ora prova a tirarsi su, cercando un nuovo equilibrio per proseguire la sua missione ecclesiale. Ad aiutarlo, la preghiera, «che mi fa sentire quotidianamente la presenza di Dio nella mia vita», oltre ai messaggi di sostegno da parte della comunità, delle associazioni di volontariato e dei confratelli.
Il parroco chiude la sua esperienza rivelando quale condizione ha fatto da motore, per reagire e uscire dalla malattia: «La speranza, sembra poco ma è capace di sostenere ogni cammino».

La storia di don Fabio Stevenazzi

Don Gianluigi non è l’unica figura di Chiesa che ha raccontato una storia legata al Covid. In termini differenti, Gallarate ricorda ancora il coraggio di don Fabio Stevenazzi, il prete-medico che lo scorso maggio – a inizio pandemia – ha deciso di tornare a indossare il camice che aveva riposto dieci anni prima, quando entrò in seminario, per andare a lavorare nel reparto Covid di terapia sub-intensiva dell’ospedale di Busto ArsizioLa sua decisione fece il giro d’Italia e venne ripresa da tutti i principali organi di informazione. Fino a raggiungere i vertici del governo, portandolo a essere insignito della onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana. Un riconoscimento conferito dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Don Fabio in Quirinale. E’ Cavaliere il prete-medico nel reparto Covid di Busto

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