Don Fabio, il prete-medico nel reparto Covid: «Non potevo restare a fare l’orto»

don Fabio Stevenazzi Covid

GALLARATE – «Posso continuare a fare l’orto quando qui fuori c’è bisogno di medici?». E’la domanda che si è posto don Fabio Stevenazzi due mesi fa, il giorno che ha deciso di tornare a indossare il camice che aveva riposto dieci anni prima, quando entrò in seminario, per andare a lavorare nel reparto Covid di terapia sub-intensiva dell’ospedale di Busto Arsizio. La sua decisione fece il giro d’Italia e venne ripresa da tutti i principali organi di informazione. Oggi, nella videoconferenza organizzata dal Centro culturale Tommaso Moro di Gallarate, ha raccontato a circa duecento persone collegate on-line la sua esperienza personale.

Dall’orto all’ospedale

Con la chiesa chiusa, le messe sospese e anche le visite ai malati annullate, don Fabio (sacerdote a Gallarate, nella comunità pastorale San Cristoforo, dopo cinque anni trascorsi a Somma Lombardo) iniziò a dedicarsi alla sua grande passione: il giardinaggio. «Nel terreno alle spalle della basilica ho cominciato a piantare patate e cipolle». Ma la molla non ci ha messo molto a scattare: «Avevo letto sul Corriere della Sera di medici esausti dopo due settimane di turni massacranti negli ospedali della Lodigiana. Mi balenò l’idea di raggiungere Codogno». Inizialmente i suoi superiori lo fecero desistere, convinti che l’emergenza Covid sarebbe durata poche settimane, circoscrivendosi alle zone dei primi focolai. «E invece dopo pochi giorni tutta la Lombardia è diventata zona rossa, anche l’ospedale di Gallarate cercava medici. Ho quindi scritto a monsignor Vegezzi ed è arrivato parere favorevole». Don Fabio è stato arruolato per il reparto Covid di Busto semplicemente inviando un cv e un’autocertificazione, «a dimostrazione della drammaticità del momento». Il giorno dopo stava già coprendo il turno di notte.

Mai avuto paura

La decisione di don Fabio commosse l’Italia proprio perché venne presa nei momenti più drammatici dell’emergenza, quando tanti medici cominciavano a morire e tutti gli altri lavoravano con il terrore negli occhi. Lui avrebbe potuto rimanere lontano dai quei gironi infernali che erano diventati gli ospedali, e invece scelse di buttarsi in prima linea. «Pur consapevole del pericolo non ho mai percepito la paura per quello che stavo facendo», racconta oggi che il momento peggiore sembra essere ormai alle spalle. «Lo confermo. Nelle ultime settimane non si è ridotto soltanto il numero di malati, ma anche la loro gravità. Essere ricoverati non è più così terribile come all’inizio, nella maggior parte dei casi il quadro clinico migliora repentinamente. Non era così prima: tutti eravamo molto più spaventati, noi medici e anche i pazienti. Si leggeva nei loro volti grande ansia, non era facile confortare i malati. Al loro capezzale eravamo tutti uguali e plastificati, ci riconoscevano soltanto dagli occhi».

Un prete in corsia

Don Fabio in corsia non soltanto non hai mai smesso di essere un prete, ma anche di farlo. Ha dovuto celebrare alcune volte l’unzione degli infermi e ha persino confessato una persona, anche se «era avvolto in uno scafandro di plastica e devo ammettere di non aver capito molto». A Pasqua, invece, è stata l’unica volta che ha indossato la stola sopra il camice e attraverso gli oblò di vetro ha benedetto i pazienti nelle loro camere. «Mentre l’ospedale serviva una fetta di colomba, ho portato loro delle immaginette del Cristo Risorto. Hanno dato conforto».

Emergenza Coronavirus, don Fabio si rimette il camice. Lavora in ospedale a Busto

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