26 giorni d’ospedale nell’Inferno del Covid per Giulio Mola: “Infermieri e medici i miei Angeli Custodi”

Giulio Mola Covid-

Il trasporto d’urgenza in ospedale con l’ambulanza. Il reparto di terapia sub-intensiva, il casco per l’ossigeno e il reparto di terapia intensiva. La dolorosa solitudine e il pianto della disperazione lontano dagli affetti. Fili e tubi dappertutto tanto da percepire la realtà quasi come in una stazione aerospaziale, lontano anni luce dalla Terra, con gli infermieri e i medici equipaggiati come astronauti che poi diventano più umani, assumendo nell’immaginario di chi soffre più la dimensione di Angeli Custodi che di esseri terreni. In mezzo le file dei letti con i corpi assopiti dei malati. È stato il lungo viaggio di Giulio Mola, il popolare giornalista opinionista televisivo e caporedattore dello Sport al Giorno, attraverso l’infernale girone del Coronavirus. Positivo al tampone ha rischiato seriamente la vita. Ventisei giorni d’ospedale prima di essere dimesso.

Un Inferno iniziato alla fine di marzo

“È stato davvero un Inferno. Un virus terribile che mi ha messo duramente alla prova. Solo dopo esser uscito dalla Terapia Intensiva mi hanno detto i medici che avevo rischiato di morire”. Giulio Mola ha ancora la voce molto debole, ma adesso è a casa. È in ripresa e la strada comincia a essere in discesa. Eppure il calvario è stato terribile. “Il 2 aprile – ha raccontato il giornalista – sono finito in ospedale. Avevo 41 di febbre. Da qualche giorno avevo un po’ di febbre. Una cosa mai vista prima. Non avevo particolari problemi di respirazione, ma in quella condizione non ho potuto fare altro che chiamare i soccorsi”. L’ambulanza lo ha trasportato all’Istituto Clinico Città Studi di Milano, presidio ospedaliero non distante da casa sua. Per 26 giorni fino al 27 di aprile quella struttura è diventata la seconda casa del giornalista. Una dimora della quale avrebbe voluto fare certamente a meno, condividendo quella condizione con tanti malati di Covid. Per tanti, troppi, pazienti la corsa è finita lì. Non per Giulio che si è aggrappato alla voglia di tornare a casa ed è stato più fortunato di mille altri. “Dopo un paio di giorni – ha specificato Giulio – sono stato trasferito nel reparto sub-intensivo. Ero in una stanza col casco. È una cosa che non sopportavo in alcun modo anche per la mia claustrofobia”. La situazione si è aggravata nei giorni successivi. Il viaggio da incubo si era fatto ancora più vorticoso. Il destino lo ha proiettato in un letto di terapia intensiva. “Grazie a Dio non sono mai stato intubato. Ma in quella stanza appena sono entrato ho visto queste file di letti con i pazienti perlopiù addormentati. Ero l’unico in quel momento sveglio”. A quel punto il casco che pompa ossigeno era diventato parte della sua armatura. Come lo è per tutte le persone che combattono contro il nemico invisibile che purtroppo continua a mietere vittime. “Avevo fili dappertutto, mi alimentavano con le flebo. Ho ricordi molti frammentari, ma nella mia incoscienza in quel momento non avevo consapevolezza che la situazione fosse così critica tanto da rischiare la vita. Me lo dissero più avanti”. La situazione è poi migliorata lentamente, il quadro clinico si è fatto più incoraggiante e l’astronauta che galleggiava insieme agli altri in terapia intensiva è stato poi trasferito di reparto. A quel punto, però, le paure hanno preso il sopravvento e la fragilità umana è affiorata in tutta la sua essenza.

“Piangevo da solo e volevo tornare a casa”

Il casco che inietta ossigeno è rimasto ancora fedele compagno di viaggio anche dopo la terapia intensiva. “Mi ricordo che in terapia intensiva – ha spiegato il giornalista – per bere mi facevano passare la cannuccia attraverso il casco. Non mi vergogno di dire che capitava che piangessi da solo, chiedendo a me stesso perché questa cosa terribile stesse capitando proprio a me. Volevo tornare a casa. Volevo stare di nuovo con la mia famiglia. Condividevo quella stanza con delle persone che come me stavano male e questa condizione di sofferenza collettiva aggravava il mio dolore e la mia tristezza”. Nel frattempo era iniziato anche il lungo percorso riabilitativo. “Ricordo le parole del medico che mi seguiva che mi disse che avevo lottato come un leone e che quindi dopo tutti i miglioramenti avuti potevo uscire da quel reparto”. Dal casco alla mascherina e poi i primi claudicanti passi con la fisioterapista, un altro Angelo Custode per chi sta facendo a cazzotti con il destino. “La prima seduta – ha ricordato – non feci più di tre passi. Sono servite nove sedute di fisioterapia prima di uscire dall’ospedale“.

La liberazione e il pianto

“Il week end del 25 aprile è stato la mia personale liberazione. In quei giorni ero ansioso perché sapevo che stavo migliorando tantissimo e che mi sarei dovuto sottoporre al tampone. Il venerdì faccio il tampone e l’esito è stato negativo. Così anche il secondo tampone. Chiamai mia moglie tra le lacrime dicendo che potevano finalmente venirmi a prendere. Potevo tornare a casa. Dormire di nuovo nel mio letto. Riabbracciare finalmente la mia famiglia. Gli infermieri vennero a salutarmi. Ormai ci si conosceva e ci si chiamava per nome. Si abbracciarono e mi salutarono. Per la prima volta li vidi in faccia dopo giorni e giorni in cui erano bardati. Prima sembravano astronauti, ma erano stati i miei Angeli Custodi. Non so come ringraziarli per tutto ciò che hanno fatto per me. Sono stati straordinari. Questa malattia ti distrugge dal punto di vista fisico e psicologico. Lentamente sto recuperando, ma c’è ancora tanta strada da fare, ma almeno ora sono a casa. Di fronte a una cosa del genere cambiano le priorità nella scala dei valori: la salute e la famiglia diventano inarrivabili per importanza. Oggi fare una passeggiata per me è una conquista, una cosa che prima davo per scontato, ma che oggi è invece una grandissima cosa”.

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