Legnano, grido di dolore di un ristoratore: «Appena aperto, già rischio la chiusura»

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LEGNANO – «Ho lavorato per pochi mesi prima dello stop forzato. Devo pagare i debiti, i miei dipendenti sono senza soldi da mesi e ora dovrei riaprire con le nuove restrizioni, senza alcun sostegno. Mi dica lei come faccio». Il dramma di Emanuele Bruzzese, proprietario del ristorante Evo di Legnano, è quello di decine di altri ristoratori, baristi, esercenti dell’Alto Milanese e migliaia d’Italia. La sua voglia di fare, l’abilità dietro ai fornelli e lo spirito di impresa hanno dovuto fare i conti con il coronavirus, il lockdown e ora le rigide norme per la riapertura. «Il governatore Fontana – racconta Bruzzese a Malpensa24 – ha indicato le linee sanitarie e igieniche da seguire solo ieri mattina, sabato 16 maggio. Dovrei ridurre i coperti a meno della metà, da 70 a 30, sanificare il locale, comprare gel disinfettante, mascherine e guanti che tra l’altro sono introvabili. E poi le barriere di plexiglass, che almeno riesco a rimediare da un ferramenta tramite un’amica. Una trovata scomoda e che obbligherà i camerieri a chiedere i rapporti personali tra i clienti per mettere o meno i pannelli al tavolo. Il vero problema però è un altro: dove li trovo i soldi per tutto?».

Bruzzese (Evo): «Imprenditori abbandonati a sé stessi»

Bruzzese (nella foto a fianco; in alto, l’interno del suo ristorante) fa il cuoco da quando aveva 15 anni prima di mettersi in proprio e fare legnano crisi ristoranti impresel’imprenditore. Lo scorso novembre, a 36 anni, ha acquistato il ristorante e ora si ritrova già sull’orlo del fallimento. «A inizio febbraio avevo 17.000 euro in banca, ora mi ritrovo sotto di 5.900 con il conto bloccato. Dei famosi 25.000 euro che dovevano arrivare con il prestito garantito al 100% dal governo non c’è traccia, le banche guardano agli incassi del 2019 ma io ho lavorato solo 2 mesi: al massimo mi concedono 10.000 euro, con cui non coprirei nemmeno le spese minime. Il decreto del governo si è completamente dimenticato delle aziende appena aperte. Non ho ricevuto nemmeno i famosi 600 euro per le partite IVA. Almeno mi sono messo d’accordo con il proprietario di casa per sospendere affitto…». L’unica fonte di sostentamento di Emanuele è il suo ristorante, chiuso da tre mesi. «I miei 4 dipendenti non hanno avuto la cassa integrazione, la aspettano da marzo e io non riesco ad anticipargliela. Ho 3 affitti da pagare indietro da mesi per il locale a Legnano e a livello personale, perché oltre al lavoro ho una vita, con una casa e le rate dell’automobile». Di chi la colpa? «Del virus, ma anche di una politica fatta di promesse e di chiacchiere. La verità è che siamo abbandonati a noi stessi».

«Il delivery? Non è una soluzione»

La fase 2, insomma, per Emanuele e per tanti altri giovani imprenditori che come lui hanno intrapreso l’attività poco prima che esplodesse l’emergenza sanitaria, deve ancora cominciare. Sempre che ciò accada. Qualcuno suggerisce al settore della ristorazione le consegne a domicilio come soluzione contro la crisi. «Se avessi anche una pizzeria forse sì. Sicuramente sarà il futuro. Ma non posso fare il delivery con la pasta, il riso e gli altri piatti, perché arriverebbero scotti, collosi, immangiabili. Per quello ci vuole un menu su misura. E quando ho iniziato a farlo, ho visto che non porta nulla a livello di guadagno: copro le spese e i margini sono talmente limitati che non ci pagherei neanche le bollette».

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