John Wayne, la frontiera e la storia

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Ivanoe Pellerin
di Ivanoe Pellerin*
Cari amici vicini e lontani, qualcuno si chiederà perché voglio ricordare il quarantesimo della scomparsa di un celebre attore, l’11 giugno 1979, che ha già avuto onore e gloria nel tempo. Perché la dimensione del mito attraversa la geografia, il tempo e la storia e diventa un aspetto culturale e di conoscenza che appartiene a tutti. Sono certo che molti ricordano l’alta figura, l’andatura circospetta e dondolante, lo sguardo fiero e diritto di John Wayne prima ancora dello Stetson, il cappellaccio del cow boy e del cinturone con le pistole.
Il modello dell’uomo che sfida il pericolo, che conquista il suo destino, che prepara e costruisce la sua fortuna è un modello tipicamente americano. Ma il modello del coraggio, del rispetto e dell’onore appartiene a tutta la nostra cultura sin dal tempo dei greci e dei romani. Non stupisce quindi che il mito dell’eroe solitario, senza macchia e senza paura, rude ma romantico, sia arrivato ad attrarre i sentimenti della vecchia Europa e che abbia rispecchiato per anni il simbolo dell’uomo forte e integerrimo, profondamente devoto agli ideali degli Stati Uniti d’America.
Ha girato più di cento film, da “Berretti Verdi” censurato dall’integralismo di sinistra a “Il Grinta” del 1970, di Henry Hathaway, dove impersonò il malmesso sceriffo Rooster Cogburn, che gli fruttò finalmente l’Oscar, al quale peraltro non dette poi particolare importanza, da vero uomo che si era costruito da solo. È davvero notevole la filmografia di John Wayne. Chi non ricorda il severo sergente Stryker che guida le truppe americane nello sbarco in territorio giapponese in “Iwo Jima” (candidatura all’Oscar del 1961) o “La battaglia di Alamo”, film da lui diretto e interpretato nell’iconico ruolo di Davy Crockett?
Quando si ricorda John Wayne, è inevitabile che il pensiero scorra fino a John Ford. Pluripremiato regista di produzioni western e annoverato tra i cineasti più influenti nella storia del cinema. John Ford fece di John Wayne il suo attore preferito, tanto da collaborare in venti film realizzati in poco più di trent’anni. Un incontro produttivo, che permise a John Wayne di girare i suoi migliori film proprio sotto la guida dell’amico. Tra questi il titolo imprescindibile della sua filmografia, “Ombre Rosse”, e numerosi altri progetti iconici del grande schermo come “Sentieri Selvaggi” e “L’uomo che uccise Liberty Valance”.
pellerin wayne frontiera cinemaHo accennato a questo straordinario “eroe” poiché John Wayne, più di altri, ha impersonato nell’immaginario di noi tutti, la frontiera americana. Lo storico Frederik Jackson fin dal 1893 sosteneva che la particolare psicologia del popolo americano era intensamente legata alle esperienze acquisite durante la marcia verso ovest, l’”inevitabile destino” della nascente nazione, ed io credo che questa tesi, pur contestata a lungo da molti storici, contenga una gran parte di verità. Non si comprenderebbe il senso di ospitalità degli americani se non ci si ricordasse dell’assoluta necessità di aiutarsi in cui si trovavano i pionieri, di fronte ad una natura ostile. Non si capirebbe il loro bisogno di movimento senza riferirsi all’incoercibile attrazione esercitata dall’Ovest sui loro padri. Non si capirebbe la loro generale mancanza di fantasia e il loro orrore del paradosso senza ricordare la continua austerità imposta dalle fatiche sovrumane sopportate dai lavoratori della terra.
Non si comprenderebbe la loro tendenza a un moralismo prossimo all’ipocrisia se non si evocassimo l’importanza dei «Padri Pellegrini» e dei loro epigoni. E nemmeno si spiegherebbe l’incrollabile fede dei cittadini degli Stati Uniti nella superiorità del genere di “vita americana” senza rammentare i crudeli successi riportati dalla civiltà dell’”uomo bianco” sulla civiltà indiana e su quella ispano-americana. Il ricordo glorioso, la stessa nostalgia di quella frontiera, sono sopravvissuti alla sua scomparsa e si sono perpetuati fino ai nostri giorni, come appunto ci ricordano i film di John Wayne, e soprattutto gli sforzi di alcuni uomini di Stato dell’America di alcuni anni or sono per prospettare ai loro concittadini un’altra frontiera, non più quella dei territori delle grandi pianure e al di là delle Montagne Rocciose, ma quella ideale tale da suscitare le stesse energie dell’antica.
In questa direzione molti tentativi sono stati fatti. Ricordo la New Freedom, la Nuova Libertà del Presidente Woodrow Wilson; il New Deal — la Nuova Esperienza — del Presidente Franklin Roosevelt; la New Frontier la Nuova Frontiera — del Presidente John Kennedy; infine la Great Society — la Grande Società prospera — del Presidente Lyndon Johnson. Si trattava pur sempre di far risorgere gli entusiasmi del passato suggerendo ai cittadini, in luogo della conquista di nuovi territori, quella di un’esistenza migliore per tutta la comunità. Allargando lo sguardo anche al’”We Can” di Obama e perfino la “First America” di Trump appartengono alla stessa riflessione.
Cari amici vicini e lontani, in verità la conquista dell’Ovest americano ha impresso una traccia profonda nella nazione e ha contribuito potentemente alla formazione del suo carattere: certo ha suscitato terribili anomalie ma anche innegabili virtù. Sarebbe un grave danno per tutti se tali virtù dovessero venire meno.
*già direttore dell’Unità Operativa Complessa di Cure Palliative e Terapia del Dolore dell’ospedale di Legnano
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