La guerra al coronavirus non ammette disertori

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L’hanno detto, scritto e ripetuto, ma forse non ancora abbastanza: siamo in guerra. Una guerra contro un nemico invisibile, subdolo e cattivo, che colpisce in silenzio e, purtroppo, sappiamo con quali effetti. Negli ospedali la situazione è drammatica. Lo è ancora di più leggendo le dichiarazioni dei medici e degli operatori in prima linea nei reparti di terapia intensiva, dove si è al punto di decidere chi curare per primo, se i più giovani e coloro i quali hanno maggiori probabilità di guarigione. Esattamente come in guerra.

In un simile scenario, appesantito dalle sacrosante restrizioni imposte dal governo, suonano beffardi gli annunci di chi sosteneva che il coronavirus provoca poco più di una semplice influenza. Sarà pure così per la maggioranza dei casi, ma per le centinaia di persone che per sopravvivere hanno bisogno di essere intubate, e per tutte coloro che invece non ce la fanno, è ben altro che un’influenza. E non serve dilungarci sul come e sui perché, dato che sono di dominio pubblico. O, perlomeno, dovrebbero esserlo. La sensazione riconduce infatti a una diffusa sottovalutazione collettiva dell’infezione, come se il problema riguardasse qualcun altro e non tutti noi.

Sbagliato generalizzare, ma gli appelli delle autorità e degli esperti, ora anche di personaggi dello spettacolo, a evitare la socializzazione, cioè gli incontri e gli assembramenti, non pare abbiano ancora prodotto i risultati sperati, nonostante la chiusura serale di bar e ristoranti. C’è chi accetta con forte disappunto il divieto all’apericena, quasi fosse un diritto inalienabile.

Siamo una società in deficit educativo, incapace di sacrifici. Ce ne rendiamo conto ora, in una situazione di emergenza che in troppi non stanno percependo. Soltanto superficialità? La risposta a questa domanda ci porterebbe lontano e, tutto sommato, è una risposta che presuppone un’analisi complessa per essere affrontata senza gli adeguati strumenti conoscitivi. Eppure, basta una giornata di sole, come l’ultima domenica, per rinviare la presa di contatto con una pur pesante realtà.

D’accordo, la confusione e le liti ai livelli alti, di chi sta nella stanza dei bottoni, non aiutano. Nonostante tutto, sul versante opposto, quello della solidarietà, si riscontra invece e per fortuna una dedizione e una generosità umana e professionale senza precedenti, perché senza precedenti è quanto sta accadendo. Siamo un popolo pieno di contraddizioni: c’è chi diserta e fugge e c’è chi si adopera per dare una mano ai suoi simili in difficoltà, mettendo a repentaglio persino la propria salute e incolumità. Di sicuro, il coronavirus ci ha colti impreparati, stiamo subendo un grande shock (sanitario ed economico) che in qualche modo ci mette alla prova. A cominciare dal dovere civico di ognuno di noi di farsi parte diligente, di fare, cioè, la propria parte. Magari semplicemente evitando di uscire di casa: dopo tutto si tratta di una condizione di precarietà destinata a finire.

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