Le donne di Kabul siamo tutte noi

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di Manuela Maffioli *

L’onda dell’angoscia che arriva dall’Afghanistan mette in un certo senso fine con anticipo a queste vacanze 2021 o quantomeno alla parte più importante, quella mentale. Se le analisi, le esegesi, le disamine vanno lasciate a chi di politica estera si occupa sul serio (e quanto vorremmo poterne ancora leggere da una penna esperta come quella di Ettore Mo), è impossibile non guardare con apprensione alle sorti, da più parti annunciate, della popolazione. Di quella femminile, in particolare.

Impossibile tenere, e da donne, lo sguardo lontano dalle bambine e dalle donne di Kabul e del Paese. Impossibile non temere. Non tremare. Per loro e con loro. Impossibile non sentire il dolore. Di corpi violati. Di volti oscurati. Di voci silenziate. Di sguardi abbassati. Di rossetti e smalti banditi. Di una femminilità da cancellare.

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Manuela Maffioli

Le notizie che cominciano ad arrivare lasciano presagire che non si tratti, purtroppo, di timori infondati, di scenari esasperati. Per le studentesse di Kabul si sono già chiuse le porte delle Università. Primo passo: precludere il sapere. Perché la chiave sta lì. Sapere significa capire. Nella cultura sta la libertà. Delle ragazze nubili si stanno compilando gli elenchi, perché i soldati possano scegliere le proprie “spose”, spesso appena adolescenti o neppure. Le reporter, anche straniere, sono in video con l’hijab. Per le strade, quasi solo uomini.

Cos’altro aspetti un Paese che aveva imparato a coniugare di nuovo i verbi al futuro non è dato sapere, non pare provvido chiedersi.

Nubili, colte, istruite, studentesse, lavoratrici. Giornaliste, professioniste, artiste. Indipendenti. Emancipate. Coraggiose. Aperte alla vita. Le donne che tanto spaventano il regime talebano sono del tutto simili a noi. Sono come noi. In fondo, sono noi. Solo a qualche meridiano di distanza, ad Est, dove però oggi il mondo ha ripreso ad andare all’incontrario. E le ha messe al centro del mirino.

Vero, le donne afghane non sono tutte così. Nelle aree rurali istruzione, emancipazione e indipendenza restano ancora ad appannaggio di poche. Eppure questo segmento, pur ridotto, della capitale, questa generazione che ha potuto beneficiare degli aspetti migliori di una neo-modernità, avrebbe potuto trainare il riscatto di molte, se non di tutte. Il riscatto di un Paese che ora, invece, si trova ingoiato da se stesso. E cerca di mettere a tacere proprio quelle voci.

Tuttavia, confidiamo, non potrà spegnere la luce delle menti ed è a quella luce che occorre guardare, la ragione per cui attivarsi.

E se quella afghana non è certo l’unica tragedia in corso, l’unica ferita aperta nel mondo, è però vero che, per una serie di ragioni (storiche, geopolitiche, culturali…) ci è arrivata addosso con una forza d’urto dirompente e inusuale. Lo dimostrano la mobilitazione internazionale, come quella locale. Che confortano e non ci fanno sentire isolati in questo sentire, in questo soffrire. Una discesa in campo, anche solo eticamente (e va benissimo) grazie all’eco, questa volta utile, utilissima, dei media e dei Social. Un campo virtuale in cui combattere una battaglia reale e comune, ciascuno per la propria parte. Uomini e donne, d’Occidente e d’Oriente, di ogni formazione e schieramento, da New York a Busto Arsizio, per le donne e le bambine dell’Afghanistan. La nostra voce, la loro voce. Perché siano garantiti i diritti civili. Perché siano rispettati corpi e menti. Perché sia concesso un futuro, anche con l’accesso al sapere. Si dia un futuro alle bambine. A quelle afghane come a quelle di tutto il mondo.

*vicesindaco e assessore alla Cultura di Busto Arsizio

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