Merchandiser: lavoratori dimenticati, per loro niente mascherine

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Spett.le Redazione,

Vi scrivo per portare alla Vostra attenzione la situazione di una fascia di lavoratori spesso dimenticati o addirittura sconosciuti, che in questo difficile periodo di emergenza si domandano con molta umiltà quali siano i propri diritti.

Ci sono centinaia di persone che lavorano nei supermercati, ma che non sono dipendenti dei supermercati.  Tra di loro c’è anche mia madre: quando mi chiedono che lavoro fa, io tendo a rispondere “la commessa” o “carica gli scaffali nei supermercati”, ma il termine corretto sarebbe merchandiser. Queste persone, come tutti gli altri dipendenti dei supermercati, sono in prima linea nell’attuale situazione di emergenza, e anche se non salvano vite, garantiscono tuttavia il normale svolgimento delle attività commerciali.

Mia madre lo fa volentieri, è il suo lavoro, in questi giorni però rischia la vita per una paga che va dai 5 ai 7 euro l’ora. I merchandiser sono assunti da agenzie esterne con contratti precari (ai limiti della legalità mi permetto di dire) che derivano dai co.co.co; adesso li chiamano contratti a tempo indeterminato (o determinato) a chiamata, alcuni sono pagati con ritenuta d’acconto e tanti di loro ricevono il compenso a 60 o 90 giorni. E inoltre arrivano a quella paga media oraria perché nell’importo sono comprese le voci extra come TFR e ferie.

A queste persone non ci pensa nessuno, non rientrano quasi mai in decreti, agevolazioni e nuove normative, proprio perché si tratta di una fascia di lavoratori che sta sempre nell’ombra: quando andiamo a fare la spesa raramente facciamo caso se un addetto è un dipendente o un esterno. Mia madre e i suoi colleghi lavorano per agenzie che in questi giorni si sono preoccupate subito di spedire il permessino affinché continuino a lavorare, ma nessuno ha pensato di fornire loro mascherine, guanti o altri DPI: si devono affidare alla sensibilità dei punti vendita, quando sono fortunati, ma più spesso si arrangiano da soli, e questi presidi li pagano di tasca loro, se li trovano. In molti casi devono raggiungere diversi punti vendita nella stessa giornata, rischiando quindi di più, e hanno paura di lamentarsi perché sanno di non avere molte alternative: conosco merchandiser immunodepresse che vanno lo stesso a lavorare perché dicono “se non lavoro, non mangio”. Che poi, basterebbe una comunicazione, un: “Tenete duro, non vi preoccupate, stiamo cercando una soluzione anche per voi”.

Ma la comunicazione non è proprio il punto di forza delle agenzie. Escluse alcune più serie, con la maggioranza di loro bisogna sempre avere discussioni per avere il pagamento corretto di tutte le ore, per ricevere la busta paga che non inviano mai, per ricevere il CUD che puntualmente si dimenticano. E la maggior parte di questi lavoratori deve mantenere rapporti con più agenzie, in modo da mettere insieme un decente numero di ore che renda utile il fatto di andare a lavorare. In genere infatti si tratta di attività da 1 ora, 2 ore a settimana, se va bene anche un po’ di più, per poi trovarsi anche con 6, 7, 10 CUD per la compilazione del mod.730, un ennesimo calvario perché c’è sempre tanta confusione.

In questo momento di crisi quindi, non solo mia madre deve andare a lavorare in condizioni non sicure, mettendo a rischio la propria salute e quella della nostra famiglia, ma lei e i suoi colleghi non sanno neanche se vedranno il bonus dei 100 euro previsti dall’ultimo decreto. Se dovessero stare a casa, sanno già che la cassa integrazione non la prenderanno, perché sono a chiamata, e se non c’è chiamata non lavori.

Ma come funziona quindi il lavoro di un merchandiser? Funziona più o meno così: i grandi marchi si affidano a varie agenzie evitando così di assumere direttamente del personale; queste poi, in accordo con la GDO, mandano i merchandiser nei punti vendita affinché i prodotti di ogni marchio vengano correttamente caricati ed esposti, per preparare le isole promozionali e per svolgere altri lavori. Alcune catene ricorrono poco a queste figure professionali, altre ne hanno approfittato per ridurre il proprio personale diretto.

I grandi nomi come Ferrero, Barilla, L’Oreal&Garnier, solo per citarne alcuni, contano molto sui merchandiser, affinché dedichino particolare attenzione al proprio marchio: i rappresentanti di Ferrero ad esempio fanno i complimenti a mia madre, e insistono perché esegua lei i caricamenti necessari, si fidano di lei perché sanno che lavora bene, e addirittura è capitato che mandassero a lavorare con lei dei nuovi merchandiser per essere affiancati. I rappresentanti però sono dipendenti di Ferrero, quindi tutelati da Ferrero. Mia madre e i suoi colleghi non hanno alcuna tutela, e nemmeno un po’ di riconoscimento dopo anni e anni di lavoro. E la pensione? Meno tasse e contributi per non incidere sulla paga, altrimenti poi non rimane in tasca niente, ma quindi anche meno pensione un giorno, sempre che riescano a raggiungere i requisiti.

Ma questi lavoratori non hanno diritti? Non spettano anche a loro i DPI e gli ammortizzatori sociali? Nessuno pensa che dopo vent’anni di lavoro, sempre alle stesse precarie condizioni, abbiano diritto ad una stabilizzazione?

Lettera firmata
Valle Olona

PS: In seguito ad alcune sollecitazioni, due agenzie si sono mosse: una ha procurato dei kit con mascherina e guanti, un’altra ha fatto sapere che rimborserà eventuali spese per l’acquisto di mascherine, sempre che riusciamo a reperirle. Rimane l’interrogativo: è possibile che nel 2020 sia così faticoso far valere i propri diritti come lavoratori? È possibile che persone di 50, 60 anni siano ridotte a lavorare in queste condizioni?

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