Non vogliamo essere complici delle violenze contro gli studenti

busto arsizio manifestazione dad

Le violenze della polizia contro gli studenti nelle piazze di Milano, Roma e Torino ci hanno fatto molto riflettere. “Cortocircuito” è il termine che la Ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha impiegato per definire le cariche dei poliziotti – armati ed equipaggiati – contro ragazzi e ragazze inermi e in maggioranza minorenni. Ci sembra troppo facile appellarsi ora alle regole dell’ordine pubblico, che forse non tutti i ragazzi che manifestavano conoscono e hanno in parte violato; e anche alla presenza di facinorosi nei cortei o alle dinamiche acritiche con cui un poliziotto deve agire eseguendo gli ordini in silenzio. Sarà che siamo insegnanti, ma a noi sembra ovvio che le situazioni vadano valutate, soprattutto da chi gli ordini li dà, soprattutto quando dall’altra parte ci sono dei ragazzi, colpevoli di manifestare, di esprimere il loro sgomento per la morte di un coetaneo, Lorenzo Parelli.

Lorenzo non è morto in un’aula scolastica, ma svolgendo una attività che toglie gli studenti dalle classi per mandarli a esplorare il mondo del lavoro, nel migliore dei casi, o a lavorare gratis, nel peggiore. Noi riteniamo che il posto degli studenti sia a scuola.

La scuola non è e non deve essere un avviamento professionale. La scuola è luogo di crescita, di formazione dell’individuo, del cittadino, dello spirito critico. Di tutta la società. E questa è una conquista, ottenuta anche grazie alle manifestazioni dei giovani del ‘68. L’alternanza scuola-lavoro è in netta controtendenza, come sanno gli studenti che protestano. Le loro istanze infatti non si riducono all’indignazione per la morte di un compagno, ma si allargano a tutto il sistema scuola, da riformare, e in questa riforma chiedono di essere coinvolti. Al contrario vengono continuamente relegati a oggetto dei provvedimenti, presi da chi in una scuola dimostra di non mettere piede da decenni.

Viene da pensare che forse la loro colpa sia questa: chiedere l’apertura di un dialogo, illudersi di vivere in una democrazia. E anziché essere ascoltati vengono zittiti, mandati a fare un esame le cui modalità sono state oggetto di modifiche, ripensamenti, chiacchiere e negoziazioni, e tuttora non risultano chiare, se non nella disparità di trattamento che i maturandi di oggi ricevono rispetto a chi, l’anno scorso e due anni fa, ha passato in DaD meno tempo di loro. La stessa DaD tanto deprecata nelle parole di chi ha voluto riaprire le scuole, pur sapendo che non c’erano e non ci sono le condizioni di sicurezza, assembrando sui mezzi gli studenti e usandoli come merce di scambio per una buona dose di consensi. Quella DaD oggi passa in secondo piano e tutti a fare l’esame come se fossimo tornati alla normalità. Anche questa è violenza, come le cariche della polizia e come tutto ciò che viene imposto con la forza, senza dialogare.

Le disparità e la violenza a noi docenti proprio non piacciono ed è per questo che scriviamo: perché non vogliamo esserne complici. Tacere, lo insegniamo quotidianamente nelle nostre aule, equivale a rendersi partecipi di quanto sta accadendo. Non vogliamo tirarcene fuori; al contrario vogliamo prendere una posizione, l’unica per noi possibile: a fianco degli studenti.

Alcuni docenti del Liceo Artistico Candiani di Busto Arsizio

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