Cultura e politica: la sfida

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di Luigi Patrini

C’è una stretta connessione tra la Cultura e la Politica: a ben vedere le reciproche implicazioni sono sempre più evidenti e più difficile è capire quale delle due influisca di più sull’altra. Teoricamente il primato dovrebbe essere della cultura: la cultura ha a che fare con il modo di pensare delle persone e le persone – se si comportano ragionevolmente – prima pensano e poi agiscono. La politica, che è per sua natura strettamente connessa con scelte pratiche ed operative, dovrebbe essere tutta aperta ad accogliere i suggerimenti e gli indirizzi dati dalla cultura.

Oggi, però, pare che non sia più così! In un tempo come il nostro, che è fortemente condizionato dal pragmatismo e da una vera e propria “ansia” di fare, sembra invece che avvenga il contrario con conseguenze che, talvolta, diventano e – ancor più diventeranno – devastanti. La tentazione di far prevalere il fare sul pensare viene da lontano: dal XIV secolo che vede affermarsi l’empirismo, dal clima che si crea intorno alla rivoluzione scientifica tra 6-700, dalla crisi della filosofia provocata da un certo cartesianesimo che porta allo scetticismo e, sull’onda delle riflessioni kantiane, alimenta l’Idealismo hegeliano, dalla società industrializzata sulla quale si innescano le riflessioni marxiane, e, un po’ più tardi, dal pragmatismo alimentato dalla seconda rivoluzione industriale. La globalizzazione e la rivoluzione informatica hanno accentuato ancor più questo processo che vede il trionfo del fare sul pensare.

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Luigi Patrini

Alcuni “profeti laici” (uno dei più noti è certo George Orwell, autore de “La fattoria degli animali” e di “1984”) hanno previsto il declino della democrazia, che si sta verificando nel nostro tempo. Tale declino è in parte tenuto “sotto copertura” dal dilagare di un forte individualismo (di singoli, di classi sociali, di categorie, ecc.) che porta a ripiegarsi su sé stessi e sui propri supposti diritti, dimenticando che non c’è diritto che non sia connesso con doveri: non solo nel senso che ogni diritto naturale di una persona comporta il corrispondente dovere in tutte le altre: quello, in primo luogo, di riconoscere e rispettare quel diritto! Ma è lo stesso diritto che io ho, se è un “vero diritto”, che comporta per me il dovere di rispettarlo: nella Pacem in Terris (1963) lo esemplifica bene Giovanni XXIII: “Il diritto, ad esempio, di ogni essere umano all’esistenza – osserva – è connesso con il suo dovere di conservarsi in vita; il diritto ad un dignitoso tenore di vita con il dovere di vivere dignitosamente; e il diritto alla libertà nella ricerca del vero, è congiunto con il dovere di cercare la verità, in vista di una conoscenza della medesima sempre più vasta e profonda”.

E’ davvero bellissimo saper riconoscere che ogni diritto implica un vero dovere! Quando si proclamano diritti, senza richiamare doveri, sembra sostenere Mary Ann Glendon, docente alla facoltà di giurisprudenza di Harvard, bisogna stare attenti, perché qualcuno vuole “fregarci”, magari con concessioni inopportune che ci distraggono. La Glendon constata che il dilagare dei cosiddetti “diritti insaziabili”, tipicamente individualistici, sta snaturando il senso stesso della libertà e della democrazia : “Il sogno dei diritti universali dell’uomo (libertà di pensiero. di religione, ecc….) rischia di dissolversi in frammenti di diritti di autonomia personale”. La studiosa americana arriva a lanciare una profezia di grande attualità: “Non sembra fantasioso immaginare che nuove libertà sessuali potrebbero un giorno diventare premi di consolazione – queste le sue parole – per la perdita di reali libertà politiche e civili (quella di pensare, per esempio) e per la negazione della giustizia economica e sociale”.

Il dibattito che si sta sviluppando intorno al ddl “Zan – Scalfarotto” sembra una nuova avvisaglia del realizzarsi di questa fosca e preoccupante previsione, che potrebbe verificarsi con il trionfo di quel relativismo gaio di cui parlava Benedetto XVI, che porta con sé il dissolvimento dell’umano stesso. La grande sfida del nostro tempo, la più grande anche per la politica, è la riflessione sul tema della cultura, come propone anche Giovanni Paolo II nella Centesimus annus (1991): “Il totalitarismo – Egli osserva – nasce dalla negazione della verità in senso oggettivo: se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di Nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell’altro. Allora l’uomo viene rispettato solo nella misura in cui è possibile strumentalizzarlo per un’affermazione egoistica”.

Da qui sgorga la consapevolezza di cosa occorre fare per salvare la democrazia: “La radice del moderno totalitarismo è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare: né l’individuo, né il gruppo, né la classe, né la Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza, emarginandola, opprimendola, sfruttandola o tentando di annientarla”.

Nemmeno “la maggioranza” ha il diritto di violare la persona umana. La grande sfida è che non si può scindere la libertà dalla verità. La maggioranza può scegliere ciò che ritiene opportuno, ma ci sono diritti che appartengono “assolutamente” al singolo e nessuno, nemmeno quella che Rousseau chiamava “la volontà generale” può violarli. La cultura della verità è la grande sfida per la politica in democrazia: se a parlare “in nome del popolo” è Napoleone, o Hitler, o Stalin, o Mao, o Pol Pot, o Lukashenko, o …. , la democrazia è finita

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