La lingua del vincitore, l’italiano e il Covid

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di Ivanoe Pellerin

Cari amici vicini e lontani, il linguaggio fa riferimento alla facoltà dell’uomo di esprimersi per mezzo di suoni articolati, organizzati in parole, atte a individuare rapporti secondo convenzioni implicite, varie nel tempo e nello spazio. Molti pensano che la lingua più parlata al mondo sia l’inglese. Non è così. Il cinese, mandarino, wu e cantonese, è la lingua più parlata (885 milioni di persone circa). Lo spagnolo, la seconda lingua più diffusa (332 milioni di persone circa), è parlato non solo in Spagna e in America Latina ma in molti stati americani come la Florida. L’inglese (322 milioni), diffuso grazie all’inarrestabile influenza economica, è ormai la lingua di comunicazione commerciale e scientifica a livello mondiale. Per quasi due secoli la lingua diplomatica è stata il francese, dalla fine del ‘700, particolarmente con l’impero napoleonico, fino alla IIa guerra mondiale ed i trattati e tutti i dispositivi storici furono scritti in francese. Però all’epoca, la capacità di penetrazione del francese era meno forte poiché i mezzi di comunicazione erano meno invasivi.

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Ivanoe Pellerin

Cari amici vicini e lontani, potremmo affermare che la lingua che domina la storia è quella del vincitore. È così dai tempi dei greci e dei romani. Il 15 agosto del 1945, dalle radio di milioni di persone in tutto il Giappone uscì per la prima volta la voce dell’imperatore Hirohito, che usando un lessico ormai in disuso da alcuni decenni, quello del giapponese classico, annunciò ai «buoni e fedeli sudditi» che «dopo aver considerato a lungo» la situazione mondiale e del paese, aveva deciso di «ricorrere a una misura straordinaria». In quella che oggi viene ricordata come la Trasmissione della voce del Gioiello, Hirohito disse che continuare la guerra, che andava avanti da quattro anni, avrebbe portato non solo alla fine del Giappone, ma «alla distruzione totale della civiltà umana». Pochi giorni dopo le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, e in seguito all’invasione sovietica in Manciuria, colonia imperiale nella Cina, Hirohito stava annunciando che aveva accettato i termini della dichiarazione di Potsdam, firmata qualche settimana prima dai paesi Alleati. Ma quel linguaggio desueto, e l’omissione di parole come “resa” o “sconfitta”, fecero sì che la maggior parte dei giapponesi non capì esattamente cosa fosse appena stato annunciato. Un presentatore prese la parola dopo l’imperatore, per chiarire il messaggio: il Giappone si era arreso e la guerra era finita.

Torniamo al linguaggio confermando la diffusione dell’inglese in tutti i campi, da quello turistico e quello informatico. Alcuni criticano l’evidente invadenza di questa lingua alla quale non è opposta alcuna barriera linguistica. L’argomento è il seguente. L’idealità si esprime con la lingua madre, noi pensiamo in italiano. Quindi, secondo questo pensiero, la limitazione dei mezzi espressivi della lingua madre comporta una limitazione della ideazione, un evidente impoverimento del pensiero. Ricordo che l’italiano è molto ricco di aggettivi e la “consecutio temporum” aiuta ad articolare un pensiero complesso. Aggiungo che la retorica, l’ottima disciplina della parola parlata, è il fondamento di gran parte dell’educazione letteraria dall’antichità classica fino alla nostra epoca e “dovrebbe” far parte del nostro lessico, almeno un poco. Secondo un’altra opinione, una maggior possibilità di espressione, legata al possedere un’altra lingua o ancor di più altre lingue, arricchisce l’ideazione, quindi favorisce una maggior produzione di pensiero. Credo che questo sia un problema culturale non risolto, sul quale non è male riflettere un poco.

Usiamo senza problemi parole inglesi per le quali esiste da molto tempo l’equivalente italiano, a volte di certo più espressivo, più performante. Chiedetevi il perché. Week end al posto di fine settimana oppure input al posto di entrata, ingresso; ancora training al posto di formazione, educazione. Solo abitudine, assuefazione, persino moda o esibizione o più banalmente pigrizia e scarsa voglia di attenzione alla nostra ottima lingua? “Badge” è entrato anche nei dizionari italiani con almeno due significati: cartellino di riconoscimento e distintivo. Non sono molte le parole “a scoppio ritardato” che per anni, se non per decenni, non escono da un ristretto ambito d’uso (tecnici, scienziati, specialisti di qualche settore professionale), e poi, per motivi diversi (campagne promozionali, adozione in testi istituzionali), “esplodono” raggiungendo una massa considerevole di persone e giustificando la registrazione nei dizionari. Per questa parola, come per altre, esistono validi equivalenti italiani: stemma, distintivo, spilla, tessera o tesserina/tesserino, cartellino, persino scudetto. Sono comunque pochi gli inglesismi che vengono accettati dall’Accademia della Crusca posta a guardia della lingua di Dante. Quanti di noi hanno a cuore di approfondire o semplicemente di aggiornare il nostro italiano? L’imminente anniversario, i 700 anni dalla morte del padre della nostra amata lingua, dovrebbe accendere i cuori e le menti con giusta italica ragione. Sarà invece una ricorrenza silenziosa e “bloccata”?

Cari amici vicini e lontani, il 19 ottobre si doveva festeggiare la XX settimana della Lingua Italiana nel Mondo che ha lo scopo di promuovere la conoscenza dell’italiano all’estero. Credo che non se ne farà nulla poiché il Covid ha contribuito malamente ad anestetizzare il nostro linguaggio. Una vera e propria invasione. Lock down al posto di “blocco totale” o “chiusura”, smart working al posto di “telelavoro” o “lavoro agile” o ancora meglio “lavoro da casa”. D’altra parte è il ministro Di Maio, quello dei congiuntivi disgiunti, quello del “coronavairus” in luogo della corretta parola latina “coronavirus”, il titolare della diffusione della nostra lingua nel mondo, quello che per celebrare l’importanza dell’italiano ha parlato del nostro “… soft power”, un’espressione fin troppo italiana. Cosa volete di più?

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