VISTO&RIVISTO Al di là del giudizio, una sorprendente e necessaria rivoluzione

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di Andrea Minchella

VISTO

EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE, di Daniel Kwan e Daniel Scheinert (Stati Uniti 2022, 140 min.).

Dico la verità. A venti minuti dall’inizio stavo per alzarmi. Stavo per uscire dal cinema. Ho temuto per la mia incolumità di spettatore bulimico di film. Ho temuto per la mia lucidità. Ho temuto per quella strana sensazione di non essere più in grado di capire il cinema moderno, contemporaneo, all’avanguardia, capace di comunicare soprattutto con le nuove generazioni. Troppo scontato bollare “Everything Everywhere All At Once” come film incomprensibile e slegato. Solo qualche giorno fa ha trionfato alla notte degli Oscar. E allora mi sono riseduto e mi sono sforzato di comprendere, guardando tutti i cento quaranta minuti di pellicola. E ho fatto bene. In effetti questo film è una piccola rivoluzione. Può non piacere, ma non si può negare che i due “Daniels” abbiano sovvertito i classici canoni narrativi a favore di un nuovo prodotto capace di fornirci un’inedita visione del mondo e di chi lo abita.

“Everything Everywhere All At Once” comincia come un film “normale” in cui una delle tante famiglie orientali negli Stati Uniti è intenta a sopravvivere tra il troppo lavoro, i complicati rapporti personali e l’inesorabile scadenza delle tasse da pagare. Ma già si intravede nelle prime sequenze ben elaborate dai due registi molto “nerd”, coi quali Hollywood dovrà fare i conti, una sorta di rivoluzione che si incastra perfettamente tra la speranza e la realtà. Una famiglia cinese in territorio straniero. Una donna che tiene egregiamente il controllo di tutto. Sua figlia fidanzata con una ragazza americana. Suo marito dolce e romantico ma completamente inutile. I due registi, prima di far esplodere il film a favore di una fantascienza impolverata degli anni ottanta ma finemente rielaborata grazie ad una originale e sconcertante capacità narrativa, raccontano come la società potrebbe e dovrebbe essere per sperare un mondo un po’ migliore di quello di oggi: più potere alle donne e meno pregiudizi per le scelte individuali. Già questo è un valido messaggio.

Ad un certo punto del racconto ogni canone lessicale e grammaticale salta e la pellicola si trasforma in un film di fantascienza che però si emancipa dai “blockbuster” della Marvel perché rimane nei confini di un certo cinema indipendente orientale che negli ultimi anni ha sempre più preso piede nelle sale cinematografiche. La sceneggiatura è ben scritta e sorregge tutte le sfaccettature di cui la storia è fatta. Seguire il filo, in alcuni punti, sembra complesso. Probabilmente un pubblico più fresco e giovane riesce facilmente a seguire i salti da un “multi verso” ad un altro. Ma il motivo per cui sono restato in quel cinema è l’aver intravisto la magia che amalgama tutto il progetto e che risiede sotto tutte quelle divagazioni temporali e spaziali che sorreggono l’intera vicenda. Sotto la storia assurda di Evelyn emerge un nuovo modo di raccontare il mondo che ci circonda, e di tracciare le fragilità e le debolezze nostre e di quelli che ci vivono accanto.

Solo con film di questo tipo, forse, si può pensare di limitare lo straripante, e un po’ ripetitivo ormai, cinema dei super eroi che imperversa in ogni stagione cinematografica. La bravura dei due giovani registi risiede proprio nel prendere un genere cinematografico ormai abusato e plasmarlo sulla capacità comunicativa e recettiva delle nuove generazioni, che sono sempre più connesse con un mondo virtuale che non sempre è sinonimo di male o inutile. Questo film, che possa piacere o no, è probabilmente un passo importante verso un lessico, una grammatica ed uno stile nuovo ma capace di raccontare il nostro presente a chi ha ancora tanto da dire e a chi il futuro lo può cambiare davvero.

Il film ricorda il cinema di fantascienza americano degli anni ottanta, ma anche il cinema di Hong Kong che tanto piace a Tarantino. Classici come “Grosso Guaio a Chinatown”, “La Tigre e il Dragone” o “Kill Bill” vengono intelligentemente rimescolati e stigmatizzati in sequenze fresche e avvincenti. La brava Michelle Yeoh interpreta una nuova eroina che è incapace di fare bene qualsiasi cosa, e per questo può diventare l’unica salvezza per i mille mondi che esistono nell’universo. La vulnerabilità e la fragilità qui diventano forza sovraumana capace di distruggere ogni pericolo e qualsiasi minaccia. La noia e i vizi possono non solo salvare un essere umano, ma potrebbero, nella logica della narrativa “nerd” dei due registi, salvare il mondo intero.

Insomma, quest’opera mette al centro l’essere umano, le sue debolezze, i suoi rimpianti, i suoi amori e trasforma tutto in un viaggio assurdo e fantastico nella capacità sovraumana di cambiare il nostro destino anche solo grazie ad un abbraccio intenso di pochi secondi. Ovviamente tasse permettendo.

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RIVISTO

RITORNO AL FUTURE PARTE II, di Robert Zemeckis (Back To The Future part II, Stati Uniti 1989, 108 min.).

Secondo capitolo del classico di Zemeckis, qui ci si interroga su come potrebbe cambiare il nostro futuro se apportiamo modifiche anche minime alle nostre vite. Una banale riflessione che Zemeckis però riesce a raccontare in maniera originale e sconcertante.

Questo secondo capitolo risulta migliore se rivisto collegato al primo per apprezzarne le sfumature quasi maniacali del regista.

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