VISTO&RIVISTO House of Gucci, aspettiamo l’originale

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di Andrea Minchella

VISTO

HOUSE OF GUCCI, di Ridley Scott (Stati Uniti- Italia 2021, 157 min.).

Troppo. Troppo colorato, troppo pomposo, troppo seppiato, troppo musicato. Luccicante, esplosivo e didascalico in maniera spudoratamente barocca. Ridley Scott, tra un film su duelli medioevali e una serie tv su alieni umanoidi destinati ad estinguersi, si occupa di una delle famiglie italiane più controverse della moda italiana. Ma la potenza hollywoodiana non è sempre calibrata quando si affrontano storie complesse che si svolgono, o si sono svolte, nel vecchio continente. Tutti i soldi del mondo, come si intitolava un altro sfortunato film di Ridley Scott di qualche anno fa, non possono comprare una sincera e chiara capacità di analisi di una cosa tutta italiana, che appartiene al significato di famiglia che solo in Italia può avere senso.

Il rischio è, infatti, di raccontare le vicende di una famiglia, peccando di superficialità, che appare mafiosa o criminale. E la famiglia Gucci non era mafiosa, né una stirpe “semplicemente” legata ai soldi e al potere. Per un’analisi schietta e limpida si doveva, forse, affidare la realizzazione del film ad un autore europeo, magari italiano, che avrebbe potuto rielaborare in maniera dettagliata e complessa tutte quelle dinamiche che, nel bene e nel male, animano le scelte e le azioni della maggior parte delle grandi famiglie italiane, che si occupino di moda, motori o spettacolo. Ridley Scott non ha l’occhio, probabilmente, per osservare le vicende che nulla hanno a che fare con mondi futuristici o civiltà del passato.

Peccato. Perché il film, lunghissimo, a cui il regista americano ci sottopone, è una perfetta ed esplosiva novella, patinata e ritmata al punto giusto, che ci fa sognare ma che non ci fa riflettere. L’obiettivo di Scott è quello di regalarci una scatola chiusa in cui è riposto un giocattolo bellissimo che vorremmo possedere, ma che non funziona e che non può essere utilizzato. Il film di Scott è perfetto. Bellissimo. Ma manca anche solo di quel pizzico di calore che possa accendere una qualsiasi emozione, che sia il desiderio di possedere quella ricchezza, l’invidia per non essere nato in quella famiglia, o il piacere di sentirsi chiamare Gucci. Lo spettatore rimane anestetizzato per tutti i cento cinquanta minuti della pellicola e assiste bulimicamente ad una narrazione che della forma fa il suo punto di forza, ma che rischia di non lasciare nessuna traccia o emozione che non sia una vaga sensazione di vuoto come quando un bambino scende da una giostra sapendo che non ci salirà più.

Detto questo, gli attori sono bravi. Lady Gaga sembra Patrizia Reggiani: ascoltarla in inglese pare un’italiana che si cimenta con la lingua inglese. Adam Driver è sincero e centrato. Pacino e Irons ricamano perfettamente le ombre dei due fratelli Gucci. Il bravissimo e camaleontico Jared Leto trasmette perfettamente il disagio asfissiante che i figli più fragili sembrano possedere come prerogativa unica della propria esistenza. La musica scandisce egregiamente l’arco temporale in cui l’ascesa e la caduta di Patrizia Reggiani si compiono. La fotografia non sbava mai nemmeno per una frazione di secondo. Il colore seppia, a volte, rende tutto, già esageratamente artificioso, come posticcio e un po’ “tarocco”, proprio come il carico di borse che Patrizia Reggiani scova in zone malfamate di New York dove con pochi dollari potevi portarti a casa una “Gucci” perfetta ed identica all’originale.

L’errore più grande, però, risiede nel libro da cui la corazzata cinematografica hollywoodiana di Ridley Scott ha deciso di trarre la sua pellicola gigantesca e prepotente. Il romanzo di Sara Gay Forden, infatti, contiene già tutta una serie di elementi nocivi e grossolani per la narrazione di una faida famigliare che avrebbe meritato più osservazione ed attenzione. Quindi, credo, difficilmente sentiremo dire da qualcuno” era meglio il libro.”.

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RIVISTO

PRET-A-PORTER, di Robert Altman (Stati Uniti 1994, 133 min.).

Altman ci sa fare. E se decide di raccontarci il mondo della moda e delle sue influenze sul mondo moderno, lo fa con un linguaggio e una grammatica tanto innovative quanto sconcertante. L’opera corale che realizza sull’eccentrico mondo della moda è un prezioso e affascinante viaggio dentro uno dei settori più falsi e nocivi che la società moderna è riuscita a creare.

Altman osserva e cataloga la liquidità e l’inconsistenza di un pianeta evanescente che però è abitato da persone vere le cui anime hanno un peso specifico consistente che stride con la trasparenza e la leggerezza che, invece, vuole a tutti i costi vendere e proiettare. Moderno ancora oggi e più vero di un’inchiesta giornalistica “senza filtri”.

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