VISTO&RIVISTO Una facile e ben riuscita operazione artistica

di Andrea Minchella

VISTO

DOWNTON ABBEY, di Michael Engler (Regno Unito 2019, 122 min.).

Erano in tanti ad attendere l’uscita di questo film. In tanti, infatti, hanno seguito per sei anni le vicende intricate ma mai esageratamente appesantite della famiglia Crawley e della sua viva e variegata servitù, nella lussuosa ed aristocratica dimora nello Yorkshire. Il successo planetario della pellicola sembra aver mantenuto le attese e i desideri dei milioni di fan di tutto il mondo che avevano consacrato “Downton Abbey” come una delle migliori serie mai esistite. E così l’inventore del progetto, Julian Fellowes, decide di riunire tutto il cast che aveva dato vita alle sei stagioni ormai mitiche e leggendarie. Engler, già regista di alcune puntate della serie, e presente in molte serie di successo, confeziona una “quasi puntata” perfetta e misurata che riesce a soddisfare in pieno il desiderio dei fan di poter rivivere, per due ore, quelle atmosfere che, puntata dopo puntata, avevano potuto assaporare durante la messa in onda della fortunata produzione televisiva.

Il soggetto è soltanto uno spunto per poter ripiombare, come in una macchina del tempo, all’interno di una delle tante aristocratiche dimore della vasta e tranquillizzante campagna inglese. L’imminente visita della regina Mary e del re Giorgio V, poi, è una geniale quanto astuta trovata dello sceneggiatore Fellows, che riesce a trovare un valido motivo per riunire l’intera famiglia, e che fornisce alla storia un importante stimolo che riaccenda vecchi e mai assopiti duelli e disappunti della numerosa e variegata famiglia dei Crawley.

Il ritmo è ben equilibrato, e la sceneggiatura ben scritta. A volte, però, sembra di assistere semplicemente ad un’altra puntata della fortunata serie. Engler e Fellowes, forse, potevano rischiare di più, e raccontarci, magari, una vicenda che mettesse sotto una nuova luce la struttura, apparentemente lineare, di una famiglia inglese degli anni venti. I due autori, invece, decidono di passare all’incasso senza spingersi troppo dentro il rischio di un racconto nuovo ed innovativo. Il loro importante merito di aver creato una splendida storia rimane, ma maneggiare un prodotto di successo non sempre significa continuare a raccogliere senza cercare di seminare qualcosa di nuovo. Resta, questo, un film a metà: seppur realizzato con capacità e professionalità, il non aver visto la serie può rendere più difficile l’apprezzamento pieno di, altrimenti, uno dei tanti film poco significativi sull’Inghilterra dei primi del novecento. Dunque sembra, sempre più, che il sottile confine tra il cinema e la televisione si continui ad assottigliare: prodotti cinematografici che richiamano la serialità delle produzioni televisive; serie che raggiungono livelli qualitativi simili, se non superiori, dei costosi e più complessi progetti cinematografici.  Si crea, quindi, una specie di “sistema di vasi comunicanti”, in cui il desiderio dello spettatore viene incanalato e diversificato a seconda che l’espressione artistica diventi televisiva o cinematografica.

Se, però, questa operazione diventa soltanto una “faccenda” di denaro, prima o poi si potrebbe creare un corto circuito pericoloso per l’intero progetto. In questo caso gli autori di” Downton Abbey”, che avevano deciso di terminare la serie molto costosa, ma con una eccezionale risposta, soltanto alla sesta stagione, qui hanno voluto riaccendere nel pubblico, quasi orfano, il desiderio, magari, di nuove iniziative in cui la famiglia Crawley torni ad essere protagonista. Quindi, al di là dei risvolti economici, questo film ha svolto, quasi in maniera terapeutica, una funzione artistica molto importante: far rivivere, per un attimo, le vicende che per molti telespettatori sono state fedeli e rassicuranti compagne di viaggio, magari, nelle fredde e piovose serate d’inverno.

RIVISTO

QUEL CHE RESTA DEL GIORNO, di James Ivory (The Remains of the Day, Regno Unito 1993, 134 min.)1993,

Dopo “Mr. & Mrs- Bridge” del 1990 e “Casa Howard” del 1992, James Ivory, nel 1993, con “Quel che resta del giorno” conclude la sua ipotetica trilogia sulla forza dirompente dei costumi, dell’apparenza e della fedeltà. Una visione, quella di Ivory, puntuale e sconcertante. Il regista, infatti, non fa sconti mentre racconta in maniera poetica e reale le vicende umane che dirige. In questo appassionante progetto, tratto dal sorprendente lavoro letterario del Nobel Kazuo Ishiguro, il regista decide di raccontare, in tutte le sue forme, la funzione della “maschera” che svolge nelle nostre vite. James Stevens, un fantastico Anthony Hopkins, è maggiordomo nella magione di Darlington Hall, nell’Inghilterra degli anni venti.

Il fedele Stevens dirige la servitù per il solo e stravagante lord Darlington. Hopkins interpreta un uomo dedito solo al lavoro, apparentemente privo di emozioni o calore. Anche quando arriva la nuova governante, la poliedrica Emma Thompson, il maggiordomo non cede alle lusinghe della donna. Anche mentre il vecchio padre sta morendo, solo e malato, in una stanza della casa riservata alla servitù, il granitico servo non interrompe ciò che sa fare meglio: servire. Assistiamo ad un capolavoro cinematografico che riesce a fissare sullo schermo la difficile e poetica scelta di un uomo di non esprimere emozioni, di proteggersi dal mondo decidendo di indossare una maschera che lo tenga a debita distanza dalla vita reale.

Da rivedere, magari insieme ai capolavori altrettanto riusciti “Mr. & Mrs. Bridges” e “Casa Howard” del prolifico e mai scontato regista statunitense.

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