Addio a Luca, guerriero nobile

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di Massimo Lodi

È l’anno ’98, scrivo con Giampiero Ventrone un libro sulla Juve, colgo l’attimo da folie e provo a chiederne la prefazione a Gianluca Vialli. Lui ignora ch’io sia, cioè uno zero rispetto a firme d’alta cifra. Ma quando riesco a contattarlo, basta una breve telefonata perché si persuada all’okay.
C’incontriamo qualche mese dopo a Torino, per la presentazione. Calda serata di maggio, parterre sulla sponda del Po, una stretta di mano, qualche facezia e il mio goffo impaccio viene messo in fuorigioco. Scopro una persona dall’umanità rara. Arguto, umile, generoso. Racconta retroscena, aneddoti, segreti d’un sacco d’imprese. I fortunati spettatori non lo vorrebbero più lasciar andare via.
Poi ci perdiamo di vista. Lo riaggancio nel 2018, quando so della malattia che l’ha preso. Alla fragilità emotiva delle parole che gl’invio, replica la forza del suo temperamento. Ecco la conferma d’una personalità di speciale timbro. Non si compiange, e invece conforta

Ci messaggiamo durante gli europei. Scommette fin da subito sull’Italtrionfo e mi faccio l’idea
che convincerà chiunque, nella nazionale, a vestire il suo spirito positivo: una seta lieve e protettiva. Va proprio così. Di giorno in giorno, di partita in partita, di successo in successo. Sino all’epilogo.

Degli azzurri, Luca è capo delegazione nella forma. Nella sostanza fa il sodale di Mancini, l’amico dei giocatori, il general manager del gruppo. Non solo l’ambasciatore istituzionale. Reca in dote sapere tecnico, acume psicologico, arte della comunicazione. Mixa serietà e allegrezza, sa toccare le corde giuste che musicano armonia. Prima della finale con l’Inghilterra legge alla squadra un brano di Theodore Roosevelt. Il succo è: bisogna far di tutto per vincere, non scordando che bisognerà accettare di perder tutto, qualora capitasse.

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Massimo Lodi

Il calcio si conferma metafora della vita. Di cui Vialli sta ormai disputando, a quel tempo, il match-clou. Avversario, il cancro. Sfida aperta a ogni esito, posta in palio contendibile: lo sfidante ci tiene sempre a dichiararlo. È un incoraggiamento a sé stesso, e una speranza agli altri.  Si chiama professione di fiducia, se interpretata dal punto di vista laico. Atto di fede, se scrutata con l’occhio cattolico. Azione da gol, se osservata dalla gradinata dell’arena sportiva. Plaudendovi, pur se soliti a tali eventi, ci s’accorge che non si è mai all’ultimo stadio. Sempre al primo, e carichi d’entusiasmo: i nostri ce la faranno. Noi ce la faremo. Parole sue, non mie.

La notte dell’11 luglio gli scrivo: grazie dell’immensa gioia che ci avete regalato. Evviva. Anzi, viva. Anzi W. Come Wembley, Winners, Winston, Wialli. Risponde con tre cuori, verde bianco e rosso, a fianco della coppa d’Europa. Poi un rigo di felice commozione, e d’obbligata riservatezza. Ci sarà un’altra volta? C’è sempre un’altra volta. E va cercata quando pare non esserci più. Al rientro da Londra, Luca va in pellegrinaggio al santuario della Beata Vergine della Speranza di Grumello Cremonese. Un gesto ustorio: quelli compiuti quando l’anima brucia di gratitudine. Ne riporta nuova serenità. Gli serve per piangere, il 6 ottobre scorso, la scomparsa improvvisa di Giampiero Ventrone, proprio lui, l’amico preparatore atletico al quale aveva voluto affiancare la sua firma, in quell’ormai lontano libro del ’98. Gli serve per annunciare, a ridosso del Natale, che l’ospite maligno lo costringe all’abbandono della nazionale. Gli serve per condurre da guerriero nobile l’epilogo d’una battaglia da cui esce sconfitto, ma tra gli applausi. Come avrebbe voluto Theodore Roosevelt.

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