Bianchi, neri e il difetto genetico

APPROFONDIMENTO | IL DUALISMO AMERICANO: LA MANCANZA DI UNA IDENTITA'

di Giovanni Baldoni

“I negri sono un’invenzione dei bianchi. La domanda è: perché?”. Termina così il film I am not your negro di Raoul Peck, che dà slancio cinematografico al pensiero James Baldwin, scrittore, intellettuale e attivista per i diritti civili nei lunghi Anni Sessanta. La risposta alla domanda arriva dal passato, e la dà lo stesso Baldwin: parole vergate con rabbia nel suo libro Next time, the fire (pubblicato nel 1963): “I bianchi hanno urgente bisogno […] di modelli che li rimettano in contatto con le profondità del loro essere. Il prezzo della liberazione dei bianchi è la liberazione dei neri […]. Noi, bianchi e neri, abbiamo bisogno gli uni degli altri se vogliamo diventare una nazione, vale a dire se davvero vogliamo conquistare la nostra identità”.

Identità. Ecco il vulnus, su cui si infrangono 250 anni di storia americana. Gli Stati Uniti nascono con un difetto genetico, sono una nazione che si costituisce su una carta, pur bellissima e nobile: la Dichiarazione di Indipendenza, i cui valori si rifletteranno poi nell’altrettanto nobile Costituzione americana. Ma una carta non basta per creare una nazione: mancano storia, lingua, cultura, tradizioni, valori e religione comuni. Manca appunto un’identità, il principio fondante di qualsiasi comunità umana, sia essa una nazione territoriale, sia essa una nazione culturale. Gli Stati retoricamente dis-Uniti d’America vengono quindi al mondo con un gap nel dna che genera, fin dai primi vagiti della neonata nazione, le più profonde contraddizioni e divisioni: il check and balance che oppone fra loro i poteri dello Stato, il principio istituzionale che consente al Presidente e all’Amministrazione di governare senza maggioranze parlamentari al Congresso, la perenne contrapposizione costituzionale fra potere federale e potere statale, fino al separate but egual che domina gli anni del segregazionismo e della discriminazione razziale, sotto l’ombrello grottesco dei valori fondanti della grande nazionale americana: libertà, uguaglianza, vita, felicità. Il pilastro planetario della democrazia e dei diritti – siano essi naturali, umani, individuali, civili – è un ossimoro storico e geografico. Il difetto genetico che risiede nel dna della nazione, genera nel bambino prodigio – cresciuto fino a diventare un gigante e la Storia talvolta è davvero ironica – una serie infinita di antinomie. Contrapposizioni insanabili di cui l’America e gli Americani hanno un maledetto bisogno, perché sono alla perenne e altrettanto disperata ricerca di un’identità. Antinomie che non si risolvono mai o quasi mai in modo dialettico, bensì polarizzano e si incrostano generando dicotomie croniche: o sei american o sei un-american. No way out. Essere americani, parafrasando lo storico Giovanni Borgognone, rischia di essere solo una collocazione geografica.

Se cerchiamo di entrare dalla porta di servizio nella storia americana con questa chiave di lettura, si illuminano diverse stanze e molte cose trovano una spiegazione: forse si comprendono meglio la schiavitù e poi la segregazione e la discriminazione razziale – fantasmi che tutt’ora tormentano l’America della contemporaneità; la guerra fredda – secondo l’interpretazione del grande storico Hobsbown; i conflitti sociali interni degli anni Sessanta, i lunghi anni Sessanta raccontati da Bruno Cartosio; l’eterna dicotomia fra due forze politiche (federalisti e antifederalisti, poi progressisti e conservatori, liberal e radical, democratici e repubblicani, new democrat e new right: due, sempre due, sempre contrapposti); fino ad arrivare ai giorni nostri, alla lotta ossessiva al terrorismo, alle guerre strumentali a cui il mondo è stato costretto ad assistere negli ultimi decenni, alle follie dell’età trumpiana. Un antagonismo permanente, perpetuo, verso un nemico pubblico: l’antagonista, il diverso, l’altro. Poco importa che prima si chiami comunismo e poi Bin Laden, l’importante è che l’America e gli Americani abbiano sempre un antagonista, altrimenti si smarrirebbero lungo il sentiero della storia, non saprebbero più chi sono. Senza l’un-american, non c’è l’american. Senza i negri, non ci sono i  bianchi, se vogliamo parafrasare James Baldwin. Per avere un’identità, cioè per essere qualcuno, bisogna essere diversi dagli altri. Ancor meglio se gli altri sono “diversi” da noi.

Il difetto genetico è dunque la culla dell’ipocrisia americana. Repubblica e democrazia negli Usa non hanno lo stesso significato che hanno in Europa. Quando il vecchio James Madison pensava all’assetto istituzionale della nuova nazione concepiva la repubblica come un governo delle élite e non del popolo, tant’è che per eleggere un Presidente sono ancora oggi necessari 538 grandi (e inutili) elettori. Democrazia in America ha sempre significato uguali opportunità per tutti e non potere del popolo: cioè assenza di quelle gerarchie sociali che caratterizzavano la vecchia Europa. Altre antinomie a stelle e strisce.

Certo, è una chiave di lettura parziale: bisognerebbe tener conto di un’infinità di altri elementi per comprendere la storia americana, a cominciare dal ruolo che ha svolto l’economia (basti pensare al comparto militare industriale e agli 8mila miliardi di dollari di corsa agli armamenti spesi in quarant’anni con conseguenti ricadute keynesiane) oppure al significato che si dà alla morale al di là dell’Atlantico (un insieme più di interessi comuni che di valori etici). Ma forse può essere una chiave di lettura utile per affacciarsi alla storia americana dalla porta di servizio.

Stati Uniti

In alto, la foto storica (clicca sull’immagine per ingrandirla) del Presidente Johnson mentre firma il Civil Right Act. Esattamente alle sue spalle c’è Martin Luther King