Albizzate, il messaggio contro la mafia di La Torre e Cerreti: «Si può scegliere»

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ALBIZZATE – «Il destino non è ineluttabile». È stato questo il messaggio che hanno voluto lasciare Franco La Torre e Alessandra Cerreti nell’incontro “Legalità parliamone con” di venerdì 18 ottobre ad Albizzate. Durante l’evento organizzato da Comune, Volarte Italia e Pro Loco il figlio di Pio La Torre, politico assassinato per il suo disegno di legge sul reato di associazione mafiosa, e il magistrato che ottenne il primo pentimento di una donna di ‘ndrangheta, hanno raccontato le loro esperienze nella lotta alla mafia alla presenza del sindaco Mirko Zorzo, dell’assessore alla Cultura Eliana Brusa e del tenente colonnello dei carabinieri Gianluigi Bevacqua, nonché dei numerosi cittadini che hanno affollato la Sala Reni.

Il destino si può cambiare

«Mio padre, benché figlio di poveri contadini, riuscì a studiare, laurearsi e impegnarsi in politica fino a diventare il più stretto collaboratore di Enrico Berlinguer, l’allora leader del Partito Comunista. Lui è la dimostrazione che, se il destino che ti è stato assegnato non ti piace, lo puoi cambiare», ha osservato La Torre. Ha confermato Cerreti, ricordando come la collaborazione di Giuseppina Pesce, prima donna accusata di associazione mafiosa, sia stata ottenuta facendole comprendere che il domani non è ineluttabile: «È stata cruciale la presenza dei figli. Nella loro cultura le femmine sono destinate a sposare, come nel Medioevo, il figlio di un boss. I maschi vengono invece avviati a un percorso criminale che comincia a undici anni. Suo figlio fece scoppiare il finimondo in famiglia perché espresse la volontà di fare il carabiniere. Noi le abbiamo dato la possibilità di far scegliere a lui quello che voleva».

Togliere il consenso sociale

Uno dei problemi affrontati nella lotta alla mafia è la mancanza di strumenti normativi omogenei: «C’è un problema culturale di fondo, come parlare un’altra lingua. In Italia quello di associazione mafiosa è un reato a parte, ma non è così nel resto del mondo. La ‘ndrangheta è una multinazionale mentre noi, non appena andiamo oltreconfine, incontriamo difficoltà enormi perché non esistono norme speciali in tal senso come l’art. 41 bis; bisogna spiegare questo fenomeno alla Comunità europea, perché non sanno cosa sia». Per combattere la mafia «è necessario toglierle il consenso sociale, perché si nutre di questo. Non bisogna stringere certe mani: nei centri piccoli come il vostro si sa bene chi è chi e che cosa fa. In occasione di una manifestazione in Calabria, di donne contro la ‘ndrangheta, raccogliemmo un’intercettazione in cui dicevano: “Hai visto queste persone che stanno scendendo in piazza? Se la gente si ribella siamo rovinati”».

Don Rodrigo è un mafioso

«Non c’è un sistema migliore dell’altro. Ciò che va tenuto sotto controllo è il rischio di infiltrazioni», ha risposto Cerreti alla domanda di Zorzo se affidare i servizi a macroorganismi invece che appaltarli ai singoli Comuni potesse comportare un rischio. «Al di là dei controlli cartolari o burocratici bisogna capire cosa c’è dietro se c’è un eccesso di soldi: la mafia ha una disponibilità finanziaria pazzesca». Interrogata sulle ragioni storiche della sua nascita, le ha collocate «a metà Ottocento quando, accanto a un’origine rurale, si è sviluppato nelle carceri un fenomeno criminale. Le radici sono nella questione meridionale: nell’Unità d’Italia il Sud è stato abbandonato. Si è rivelato un territorio fertile per le organizzazioni mafiose e la classe politica, a parte fasi eccezionali, è stata incapace di reagire. L’Europa, sebbene non ne avesse di sue, ha accolto le nostre a braccia aperte».
Secondo La Torre il fenomeno è legato alla sopravvivenza di strutture medievali: «Non sono del tutto d’accordo: Don Rodrigo dei “Promessi Sposi” è un mafioso sotto tutti i punti di vista e i signori feudali sono per loro natura mafiosi. In altre parti d’Europa non è rimasta una memoria storica di questo, l’Italia se l’è invece lasciata alle spalle dopo un po’. Ma non siamo sempre i primi: in Messico, a Sinaloa, luogo del cartello di El Chapo, c’è appena stata la guerra. Una città messa a ferro e fuoco perché il narcotrafficante voleva che fosse liberato suo figlio in arresto, cosa poi avvenuta: una conclusione che non auspichiamo».

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