La protesta in piazza a Busto e le regole calpestate

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Il malessere, anzi, la rabbia di commercianti e artigiani, massacrati economicamente dal perdurare del lockdown, è comprensibile. Probabilmente, di più. Hanno ragione a ribellarsi a una situazione che rischia di cancellare molte delle loro attività: le saracinesche di negozi, ristoranti, laboratori e quant’altro potrebbero rimanere abbassate per sempre e in un numero considerevole. Con effetti devastanti sui singoli e sulla collettività.

Un po’meno comprensibile è il flash mob organizzato questa mattina, sabato 2 maggio, in una piazza di Busto Arsizio, manifestazione estemporanea che appare fine a sé stessa, non portando nulla di nuovo alla drammatica situazione e, soprattutto, priva di proposte risolutive rispetto a quanto messo in campo o in via di definizione da Governo, Regione e Comune. Certo, molte “partite Iva” non hanno ancora visto un centesimo, a parte la mancia di 600 euro, per chi l’ha avuta. E i ritardi di concrete contromisure sono esiziali per tutte le attività. Detto questo, c’è un diritto a rappresentare istanze e malumori sancito dalla Costituzione. Salvo contesti particolari, come l’attuale che stiamo vivendo.

Sorvoliamo sul sottofondo politico e sui presunti, reconditi e personali obiettivi elettorali che fanno capolino tra gli organizzatori dell’iniziativa (Matteo Sabba, il principale promotore, è presidente del Distretto del Commercio e esponente del centrodestra che l’ha espresso, oggi in palese disaccordo con l’iniziativa di protesta, come in dissenso sono le associazioni di categoria). Concentriamoci invece su un altro aspetto, quello delle regole. E’ ancora in vigore il decreto Conte che impone di restare a casa, salvo comprovate esigenze anche nella prossima Fase 2. Che cosa hanno scritto i partecipanti alla protesta sulle necessarie autocertificazione per giustificare la loro presenza in piazza? Sono vietati funerali e finanche le celebrazioni di messe: i carabinieri sono piombati sull’altare di una chiesa (vuota) per intimare al prete di interrompere la celebrazione sacra. In piazza, a Busto, nessuna autorità ci risulta abbia al momento eccepito. Nemmeno i vigili urbani, lesti, nei giorni scorsi, a sanzionare tre malcapitate commesse che aspettavano di iniziare il lavoro, contestando loro un assembramento.

Di più. In settimana, a Sanremo, un analogo flash mob di parrucchieri e estetiste del luogo è finito a suon di multe sulla base del decreto che vieta affollamenti. Qual è la differenza tra i due eventi? Scriviamo questo senza alcun intento accusatorio, ma ci pare che qualcosa continui a non funzionare nel nostro Paese. Né ci passa per la mente l’idea che Questura, Arma o Polizia locale debbano punire chi era in piazza, per altro, e lo ribadiamo, con mille ragioni e altrettanti guai da risolvere senza dover aggiungerne altri.

Equità e regole disattese a parte, sorgono scontati dubbi a fronte di quanto è successo e sta ancora succedendo con la pandemia. Compresi i silenzi imbarazzanti e calcolati di chi, per esempio ai livelli amministrativi locali più alti, sarebbe dovuto intervenire per avallare, delegittimare o fermare l’iniziativa. Sacrosanta fin che si vuole, se non fosse indispensabile rispettare provvedimenti a cui, tutti noi, con grande fatica, cerchiamo di ottemperare. A meno che, certi silenzi siano funzionali a ciò che in tanti sospettano: che l’idea di portare la gente in piazza, cavalcando il suo enorme disagio, non abbia fini diversi. Magari in vista delle urne. Questo sì, sarebbe molto grave.

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