Mani Pulite trent’anni dopo, un’inutile lezione

mani pulite tangentopoli
Gherardo Colombo, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo: il pool di Mani Pulite

I media di tutta Italia celebrano in questi giorni il trentennale di Mani Pulite. Parlare di celebrazione è forse improprio, ma la data del 17 febbraio 1992 segna l’inizio della fine di una lunga stagione di corruzione e malaffare politico, ma non solo. Quel giorno scattarono le manette attorno ai polsi di Mario Chiesa, potente socialista della cosiddetta “Milano da bere”, presidente del Pio Albergo Trivulzio, meglio conosciuto come Baggina: in tasca aveva una mazzetta di 7 milioni di lire che, all’arrivo delle forze dell’ordine, poi coordinate dal famoso Pool della procura milanese e, in quel momento, dal pm Antonio Di Pietro, cercò di far scomparire nel water. Bettino Craxi minimizzò l’accaduto, definendo Chiesa un “mariuolo”.

Da quel momento, però, fu scoperchiato il vaso di pandora della corruzione in Italia. Un’intera classe dirigente fu letteralmente cancellata, Tangentopoli ebbe l’effetto di un maglio, decretando, quanto meno per definizione, una svolta epocale: usciva di scena la prima Repubblica, cominciava la seconda. Se mai vada davvero registrato un simile spartiacque, se mai non sia soltanto un’invenzione giornalistica e, a conti fatti, se mai tutto cambiò affinché nulla potesse cambiare.

In concreto, la magistratura mise le mani su un intreccio politico e imprenditoriale impostato attorno a modelli comportamentali illeciti, diventati però normalità. Da Milano, le indagini si allargarono a tutto il Paese, con ramificazioni locali, a cominciare dalla provincia di Varese (un centinaio di arresti anche qui), destinate a confermare come la corruzione fosse diffusa, fino ad allora irrefrenabile e pervasiva dell’intero apparato politico, sia centrale sia periferico. Uno sconvolgimento che avrebbe potuto o, meglio, avrebbe dovuto generare un rinnovato contesto politico e sociale, formando una diversa consapevolezza rispetto all’impegno istituzionale, verso la cosa pubblica.

C’è allora da domandarsi a cosa sia servita Tangentopoli, quale sia stato lo sbocco della rivoluzione che ha provocato, quale realtà abbia alla fine stabilito, quali siano gli attuali ritorni per i partiti e, soprattutto, sul versante etico, cioè dell’onestà di chi ha le leve del potere, centrale e locale. I partiti non esistono più, al massimo sono aggregazioni elettorali che si muovono nell’orbita di un leader riconosciuto e spesso incontestabile, che comanda secondo le proprie personalistiche logiche. Con Mani Pulite sono finite le ideologie. Ed è svanita anche la tensione democratica e la voglia di partecipare dei cittadini. Questo non può essere un valore per il confronto e per la stessa democrazia.

Che non si rubi più è un’aspirazione velleitaria: la corruzione purtroppo resiste. Ne troviamo traccia in mille e più episodi registrate dalle cronache (basti pensare all’inchiesta Mensa dei poveri). Così che Piercamillo Davigo abbia agio di sottolineare come “i politici continuino a rubare, solo che non si vergognano più”.

Una semplificazione, la nostra veloce analisi? Probabilmente sì, ma nemmeno possiamo esultare a fronte dell’attuale quadro di riferimento, dentro il quale sono spesso protagoniste le seconde e le terze fila di un tempo, quando a fronte di veri o presunti ladri esisteva ancora la politica. Come ebbe modo di dire un vecchio esponente della prima Repubblica: “Rubavano, certo. Ma almeno sapevano stare a tavola”. Che sia un’osservazione consolatoria, sicuramente no. Che metta in luce l’amarezza per il presente, ci sembra indubitabile. Per concludere che la lezione di Mani Pulite è stata inutile. Purtroppo.

mani pulite tangentopoli – MALPENSA24