Mensa dei poveri tra complicazioni, verità e attese

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E’ difficile per chi, come noi, cioè la stragrande maggioranza dei cittadini, non ha sostegni giuridici comprendere come mai un giudice abbia vanificato gli accordi tra la procura e gli indagati nell’inchiesta Mensa dei poveri ammessi al patteggiamento. Dopo la decisione del gip di Milano, che ha rigettato gli undici patteggiamenti in discussione, cioè tutti, si rimane perlomeno sorpresi e desiderosi di un chiarimento che, al di là degli aspetti tecnici, aiuti a capire quali siano i termini di un’indagine che ha generato sconcerto e rabbia nell’opinione pubblica. E che, oggi, con le determinazioni uguali per tutti i politici e i funzionari pubblici coinvolti, finisce per disorientare. Tutti sullo stesso piano nelle considerazioni del gip rispetto a quanto certificato dai pm?

Proviamo a riassumere. La procura milanese ha preso atto delle dichiarazioni e, quindi, delle confessioni di un certo numero di persone indagate, undici per la precisione. Quasi tutte gallaratesi o orbitanti attorno al Mullah Nino Caianiello, pronte a riferire, raccontare, ammettere. Una collaborazione che è valsa loro la possibilità di chiudere la vicenda giudiziaria appunto con il patteggiamento. Cioè, un accordo con i pm che, previa consistente riduzione della pena, evitasse il processo. E morta lì.

Invece, sorpresa: il gip Maria Vicedomini ha deciso diversamente, rigettando le richieste di applicazione della sanzione. Perché? Motivazioni contenute nelle venti pagine della relativa ordinanza, ma comunque spiazzanti rispetto a una procedura che pareva avere imboccato una strada precisa, a favore delle risultanze di un’indagine condotta con estremo rigore da procura ordinaria e Dda. Tutto da rifare, insomma. Non è esattamente così, anche se il no collettivo ai patteggiamenti apre la porta a una serie di interpretazioni e dubbi, che non fanno altro che confondere le acque. E complicare il cammino ancora da concludere di un’inchiesta che, così come si poteva immaginare sinora, era tutt’altro che complicata a fronte di un sistema, vero o presunto che sia, di maneggi e illegalità su diversi versanti amministrativi e politici. A meno che sfugga qualcosa che il gip ritiene invece determinante; ad esempio l’accertamento di ulteriori reati da riferiti agli undici in questione, frutto di dichiarazioni successive alle loro rese ai pm. O, ancora, l’inadeguatezza delle pene concordate rispetto a quanto viene contestato.

Detto ciò, il risultato immediato è che d’ora in poi nessun indagato troverà comodo collaborare, cercando in questo modo di arrivare a un accordo con la procura sulla condanna da scontare. Perché mai dovrebbe ammettere o fare confidenze senza garanzie precise sull’accoglimento delle richieste di applicazione della relativa pena? E che cosa accadrà in un eventuale dibattimento con un numero enorme di imputati che a quel punto, proprio perché imputati, avranno facoltà di non rispondere alle domande di giudici, pm e avvocati? Scenario per nulla rassicurante e foriero di nuovi grattacapi che finiranno per deporre sfavorevolmente all’accertamento della verità. Della quale, dopo quanto si è sentito e visto a ogni livello, c’è assoluto e irrinunciabile bisogno.

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